Il 2023 che si è concluso avrebbe potuto essere un anno storico per l’Unione europea. Per esempio, avrebbe potuto essere l’anno dell’addio al motore a combustione e più in generale all’energia da fonti fossili, oppure quello del congelamento della rivoluzione del “Green Deal”. Lo stesso vale per i due “patti” siglati a dicembre: quello su migranti e asilo riuscirà ad affrontare i nodi irrisolti sull’immigrazione e le liti sull’accoglienza? E il nuovo Patto di stabilità saprà superare la stagione del freddo rigore dei bilanci senza comprimere investimenti pubblici e crescita? E ancora: il via libera ai negoziati per l’adesione dell’Ucraina sarà la svolta attesa per creare un’Europa più grande oppure Kiev e gli altri Stati saranno lasciati nel limbo in cui si trovano Albania e Macedonia?
Il 2023 era iniziato con un’Europa affannata dalla crisi energetica e dall’inflazione. Se i fantasmi di blackout elettrici sembrano un ricordo, l’erosione del potere d’acquisto delle famiglie continua. E questo nonostante gli interventi della Banca centrale europea, che ha alzato i tassi d’interesse a più riprese, fino a raggiungere il livello più alto da quando esiste la moneta unica. Un record che qualcuno pensa potrebbe persino venire battuto nel 2024, e che sta avendo un impatto notevole sui mutui, restringendo il credito alle famiglie e facendo pagare interessi più alti a chi, come l’Italia, ha un elevato debito pubblico. Il tutto mentre al conflitto ucraino si è aggiunta la guerra tra Israele e Hamas.
Le tensioni geopolitiche hanno seguito quelle socioeconomiche, e a Bruxelles, dopo il successo di Giorgia Meloni a fine 2022, si pensava che il 2023 sarebbe stato l’anno del trionfo del vento sovranista, capace di intercettare il malcontento crescente dei ceti medio bassi. Prima le elezioni in Spagna, poi quelle in Polonia, hanno, invece, ribaltato le attese, confermando il partito socialista di Pedro Sanchez a Madrid e scalzando dal governo di Varsavia i sovranisti. In Olanda c’è stato il successo dell’ultradestra di Geert Wilders, ma potrebbe essere una vittoria “mutilata” dato che, per il momento, Wilders non sembra in grado di formare un governo.
Il 2023 doveva portare a termine il “Green Deal”, il grande piano per la transizione ecologica dell’Europa. È stato, invece, l’anno in cui tale piano ha subito una frenata, per via delle preoccupazioni di diversi Stati membri di destabilizzare la società e gli equilibri socio-economici. La fine della auto a benzina e diesel nel 2035 è stata “ammorbidita” con l’apertura agli “e-fuel”, e soprattutto con una clausola di salvaguardia che potrebbe far slittare la scadenza annunciata di altri anni. Sulle ristrutturazioni degli edifici, la cosiddetta “Direttiva Case”, si è giunti ad un testo che ha annacquato la spinta alla riconversione “green” di abitazioni private e uffici.
Il nuovo vento che spira a Bruxelles si è sentito in particolare sull’agricoltura: la “Farm to fork”, la strategia-corollario del “Green Deal”, non è mai decollata. Lo dimostrano lo stop alla proposta di legge che doveva portare al dimezzamento dei pesticidi, il mezzo stop a quella sul “ripristino della natura” (che avrebbe dovuto riconvertire larghe fette di allevamenti e campi agricoli in aree verdi protette), e il depotenziamento del regolamento sugli imballaggi, che riguardava la filiera agroalimentare. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, è probabile che gli obiettivi climatici che l’Ue si è posta per il 2030 non saranno raggiunti. E questo a fronte dell’accordo mondiale raggiunto alla Cop 28 sulla transizione dai combustibili fossili.
In questo contesto si inserisce anche il tema immigrazione. L’accordo sul nuovo Patto su migrazione e asilo intende superare il regolamento di Dublino nel nome di una maggiore solidarietà tra gli Stati membri, ma secondo le organizzazioni umanitarie rappresenta il trionfo di chi vuole innalzare muri ai confini, anche a costo di venir meno ai diritti umani e alle convenzioni internazionali.
Qualcuno a Bruxelles spera che il nuovo corso su “Green Deal” e quello sui migranti possa incidere a giugno 2024, quando si apriranno le urne delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, che a loro volta determineranno la nuova Commissione Ue. Per il momento, i sondaggi dicono che l’attuale maggioranza (popolari, liberali e socialdemocratici) dovrebbe confermarsi come l’unica coalizione possibile per governare l’Europa. Ma avrà bisogno di un sostegno esterno: da un lato ci sono i verdi, in netto calo; dall’altro, ci sono i conservatori, che sono in crescita. Le elezioni europee saranno anche il banco di prova delle nuove norme che l’Unione europea ha messo in campo proprio nel 2023 per combattere la disinformazione online e la diffusione di contenuti pericolosi sul web. Negli ultimi mesi, la Commissione Ue ha inviato diverse lettere ai giganti del settore per sollecitare l’adeguamento alle nuove regole. I timori maggiori di Bruxelles si sono concentrati al momento su X, l’ex Twitter oggi in mano al patron di Tesla Elon Musk. Dal suo arrivo alla guida del social, Musk ha smantellato il comparto che si occupava proprio delle fake news, e X è stata accusata di aver fatto poco o nulla per contrastare la disinformazione sulla guerra a Gaza. La preoccupazione della Commissione è che lo stesso possa accadere durante la campagna elettorale delle elezioni europee. Restando sul tema, il 2023 è stato anche l’anno della prima legge al mondo sull’intelligenza artificiale.
Il 2023 si è chiuso con l’avvio dei negoziati di adesione per l’Ucraina, anche se il via libera è arrivato con una serie di condizioni che potrebbero complicarne il cammino. Per il presidente Zelensky è comunque stata una boccata d’ossigeno in un momento difficile: la controffensiva non ha raggiunto i risultati sperati, tra i soldati ucraini serpeggia la stanchezza dopo due anni di guerra, e una parte dei vertici militari soffia sul malcontento popolare. Il fatto che gli alleati Ue abbiano rilanciato il sogno dell’integrazione europea è un assist al presidente ucraino. Il leader ucraino ha fatto spola tra Stati Uniti ed Europa cercando di ottenere nuovi aiuti economici. La guerra continua, e secondo alcuni esperti la Russia potrebbe trovarsi nei prossimi mesi in una posizione di vantaggio in termini di arsenale e uomini. Se questa supremazia dovesse confermarsi sul campo, l’Ue avrebbe la sua buona parte di responsabilità: il 2023 doveva essere l’anno del crollo dell’economia russa sotto i colpi delle sanzioni occidentali, in particolare quelle sul petrolio. Ma il crollo non vi è stato e le sanzioni sono state ampiamente aggirate. Prova ne sia che proprio a fine 2023 la Commissione ha stilato un ulteriore elenco di misure anti-Mosca che per lo più sono mirate a coprire le scappatoie.
Il 2023 a Bruxelles è stato anche caratterizzato dal dilemma cinese. L’Ue è apparsa divisa su come rapportarsi a Pechino. Anche se è generalmente condivisa la necessità di riequilibrare i rapporti economici (nei primi 11 mesi del 2023 la Cina ha esportato merci per 458,5 miliardi di dollari verso l’Ue e ne ha importate per 257,8 miliardi, poco più della metà), non tutti vogliono che questo riequilibrio si trasformi in una guerra commerciale con Pechino. In questo quadro, si è inserita la strategia sulle materie prime critiche, che mira a ridurre la dipendenza da Pechino e a diversificare le fonti di approvvigionamento di minerali fondamentali per il futuro industriale, dai chip alle batterie. E non è detto che il tempo giochi a vantaggio dell’Ue. Inoltre, negli ultimi tempi Washington e Pechino sembrano voler tentare un riavvicinamento. Fatto sta che se il 2023 si era aperto con le minacce nei confronti di Pechino per il suo sostegno alla Russia, l’anno si è chiuso con un summit Ue-Cina dai toni più concilianti.
Su tutto questo aleggia la riforma dei Trattati dell’Unione europea. Il Parlamento europeo, a novembre 2023, ha approvato una proposta che, nascendo direttamente dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, richiede la modifica dei Trattati e che chiede al Consiglio europeo di convocare una Convenzione di riforma dei Trattati. La proposta mira, da un lato, a rafforzare la capacità dell’Unione europea di operare e, dall’altro, ad aumentare il peso dei cittadini. In particolare, la proposta di riforma prevede un sistema “più bicamerale” per evitare situazioni di stallo, attraverso il voto a maggioranza qualificata e l’uso della procedura legislativa ordinaria; il riconoscimento al Parlamento di un pieno diritto di iniziativa legislativa e del ruolo di co-legislatore per il bilancio a lungo termine e una revisione delle norme sulla composizione della Commissione, rinominata “esecutivo europeo”. Il Presidente della Commissione, che dovrebbe ricevere la nomina dal Parlamento e l’approvazione dal Consiglio (contrariamente a quanto avviene oggi), potrà scegliere i propri Commissari sulla base di preferenze politiche, tenendo conto dell’equilibrio geografico e demografico, e avrà la possibilità di presentare una mozione di censura sui singoli Commissari. Sono proposte la pubblicazione delle posizioni degli Stati membri dell’Ue su questioni legislative, per garantire una maggiore trasparenza in seno al Consiglio e la creazione di meccanismi di partecipazione adeguati e il rafforzamento del ruolo dei partiti politici europei. Sempre nell’ottica del rafforzamento degli strumenti democratici, la proposta prevede l’introduzione del pieno diritto di iniziativa legislativa per il Parlamento e di strumenti di democrazia diretta. Altro elemento cruciale della proposta del Parlamento è l’aumento significativo del numero di decisioni prese a maggioranza qualificata (ad esempio in caso di sanzioni) e la sostituzione del metodo dell’unanimità con quello della maggioranza rafforzata (almeno quattro quinti dei membri del Consiglio che rappresentano gli Stati membri e che riuniscono almeno il 50% della popolazione europea) da utilizzare per le decisioni in materia fiscale. Inoltre, si propone di rendere condivise le competenze su temi importanti come salute pubblica, protezione civile, industria e istruzione, mentre attualmente sono di competenza esclusiva degli Stati membri.
L’immagine di questo progetto per il futuro va rilanciata con coraggio, attraverso un percorso che coinvolga direttamente i cittadini poiché non è più possibile avanzare nel processo di integrazione senza il loro diretto consenso. Alle persone serve un modello in cui identificarsi. Ripensare il sistema istituzionale per l’Unione europea permetterà finalmente di rispondere al cosiddetto “paradosso della vuota promessa”, la distanza tra ciò che è scritto nelle carte dei diritti e ciò che è praticato ogni giorno, la contraddizione tra ciò che raccontiamo essere “Europa” e ciò che è davvero. Bisogna tessere una nuova rete tra istituzioni e società civile capace di trasmettere agli europei la prospettiva di vivere in una comunità di destino, superando la strumentalizzazione e il rifugio nei fasti di un passato che probabilmente non è mai esistito. Non bastano delle nuove regole, abbiamo bisogno di alzare il livello della democrazia.
Il 2024 sarà davvero un anno spartiacque per l’Europa che verrà, e capiremo se si potrà aprire una fase nuova e consapevole dei tempi complessi che stiamo vivendo o se, invece, si finirà in uno stallo già più volte visto in passato e che gli equilibri geopolitici oggi rendono non più sostenibile anche nel breve periodo.