Sicuramente questa impietosa analisi di Mario Lavia è reale, senza “se” e senza “ma”. Era ora di farla, ed è ora di approfondirla.
Adesso è però anche tempo di indagare sulle cause di questa involuzione del Sindacato: come si dice, “apriamo il dibattito” sul (o meglio, “sui”) perché ciò è accaduto (magari sul blog “Voci dal Petrolchimico”, inaugurandolo proprio con l’analisi di Lavia e – se serve – con queste mie osservazioni che seguono).
Più che dire il mio “perché”, io mi sento di fare una precisazione: il Sindacato dei lavoratori, per sua natura non può che rappresentare … i lavoratori, appunto.
Quindi, nella ricerca delle “cause dell’assenza” del Sindacato dal vivere sociale, si dovrà partire (a mio parere, ripeto) dall’analisi di come è cambiato il mondo del lavoro (anzi, “il mondo” tout-court) e quindi di come sono cambiati i lavoratori, cos’è che li ha resi così individualisti, insofferenti rispetto ad ogni istanza di solidarietà e di egualitarismo (parola passata in disuso da tempo), salvo poi anelare, essi, consumisticamente, all’uniformità (direi, all’omologazione) nei modelli di vita quotidiana: il Suv fuori dalla porta; i figli vestiti all’ultima moda e dotati dei più recenti modelli di scarpe e di abiti griffati, di cellulari, di moto… e chi più ne ha, più ne metta.
Per quante colpe abbia il Sindacato, non mi pare si possa addebitargli anche l’incapacità di aver evitato che il mondo andasse in questo senso.
E temo, purtroppo, che non sarà neppure il Covid a migliorare questa società, e quindi il Sindacato. Anzi.
Mi scuso per il “pessimismo cosmico” che traspare da queste osservazioni; ma io sono uno di quei vecchi che -come ha messo in luce la coppia “Virus-Toti”- non è indispensabile allo sforzo produttivo del Paese.