L’8 marzo è una data universalmente conosciuta e riconosciuta, nonostante sia una delle ricorrenze laiche di questo paese, tra quelle maggiormente messe in discussione, oltreché fraintese.
Eppure, l’8 marzo rappresenta quello che siamo oggi, cittadini e cittadine di questo paese, perché alla simbologia di questa data possiamo a buon diritto attribuire la pienezza di un valore politico.
UDI: le radici
È stato nel 1945 per iniziativa dell’UDI appena costituitasi, che la celebrazione di questa giornata – Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne -, celebrata fin dal 1922 come “festa della donna”, è stata ripresa e celebrata, dapprima nelle zone dell’Italia libera, poi in tutta Italia, utilizzando come simbolo la mimosa.
Viene naturale associare l’8 marzo alla mimosa ed entrambe alla storia dell’Udi – Unione donne italiane (che dal 2004 diventa Unione donne in Italia) perché è una associazione le cui radici si collocano nella tradizione del grande movimento delle donne, riconducibile al Risorgimento e la cui genesi coincide con la genesi della nostra democrazia: la storia dell’Udi va infatti in parallelo con la storia di quel movimento spontaneo di donne che, dopo l’8 settembre 1943, diede vita alla Resistenza e, il primo ottobre 1945, si costituì in associazione come “UDI”.
400.000 iscritte al Congresso del 1945
Tanto interesse e coinvolgimento per quel progetto che permetteva di partecipare alla vita politica del paese, che al Primo Congresso, a Firenze dal 20 al 23 ottobre del 1945, le iscritte all’UDI erano 400.000.
Noi qui oggi, ci sentiamo tutte e tutti, figli di quelle donne che, insieme agli uomini, posero le fondamenta della nostra democrazia, basata sulla pace e sul rifiuto della guerra; fondamenta politiche da cui partì il primo impegno di lotta: il riconoscimento del diritto di voto alle donne.
Le donne dell’Udi capirono che la piena democrazia è imprescindibile dall’elevare le donne a soggetto politico pieno e riconosciuto, in cui il voto non poteva che esserne imprescindibile premessa.
Quelle donne agirono una precisa pratica politica.
Una “best practice” ante litteram
Una pratica che affondò immediatamente nella quotidianità del fare, con i “Treni della felicità”, ad esempio, con i quali, dall’ottobre 1945 si organizzarono accoglienze per bambini e bambine spostati dalle zone più colpite dalla guerra verso famiglie di zone meno colpite, in particolare di quelle dell’Emilia-Romagna.
E mentre l’Udi cresceva, cresceva anche il movimento delle donne, con azioni di solidarietà e di lotta per contribuire alla creazione di una società democratica e progressista: in particolare nel 1946, per la scelta della Repubblica (votarono a favore, infatti, quasi 13 milioni di donne a fronte di quasi 12 milioni di uomini) e nella Costituente, con le sue 21 donne determinanti per l’introduzione nella Carta Costituzionale del principio d’eguaglianza (art. 3) e di tutte le norme volte alla costruzione di uno stato progressista.
Impegno (e lotte) per i diritti
Molte sono state le battaglie per i diritti sostenute dall’Udi, fin dalle origini: con lo smantellamento del diritto patriarcale, attraverso l’abolizione dei “figli di nessuno”, con la disparità salariale uomo/donna [le donne erano considerate ‘mezze forze lavorative’ insieme ai bambini], con l’abrogazione dello ius corrigendi del pater familias, con la chiusura delle case di tolleranza, con l’accesso delle donne alle professioni, con la pensione sociale a favore dei cittadini senza reddito, con la riforma del diritto di famiglia, e solo per citarne alcune tra le più note…
Contemporaneamente, mai mancando agli appuntamenti, non sono nazionali, ma globali: campagne per la pace, contro le armi nucleari, per l’ambiente, e sempre contribuendo con una voce pacifista e solidarista alla costruzione dell’agenda politica.
Violenza di genere: gli albori della normativa
Fondamentale è stato il contributo dato dall’UDI per una legge sulla violenza sessuale che, a differenza del codice penale del 1931, considerasse la donna come essere umano e non come strumento di ordine dello Stato, legge che, promossa nel 1979 dal Comitato promotore della legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale, costituito da MLD (Movimento di Liberazione della Donna), UDI (Unione Donne Italiane), Movimento femminista romano di Via Pompeo Magno, Effe, Noi donne, Quotidiano Donna e Radio Lilith, ha visto la luce nel 1996.
E ancora, nella latitanza dello Stato, è stata l’UDI, nel 1986, a realizzare, a Milano, la Casa delle Donne maltrattate, primo centro antiviolenza in Italia.
Da questo stringatissimo excursus di memoria storica, è evidente che le donne non hanno agito in solitaria, ma l’azione e il pensiero è stato agito da donne e uomini assieme, anche se, innegabilmente, spesso la forte motivazione è stata l’elemento trainante per chi si sentiva con meno diritti.
Ma assieme, donne e uomini, perché l’UDI non è una associazione che si occupa delle donne – come spesso si sente dire.
Il “separatismo” come pratica di consapevolezza di genere L’UDI è una associazione che, ponendo al centro la valorizzazione della soggettività politica delle donne, si occupa delle donne e degli uomini, e si occupa della società tutta, pur rimanendo una associazione separatista.
Il separatismo coincide, infatti, con la sua genesi e la sua specificità.
Tuttavia, i tempi sono maturi per un’accoglienza più allargata e l’Udi di Ferrara, pur continuando ad associare solo donne, ha creato all’inizio di quest’anno la “Carta amico e amica dell’Udi” che consente a chiunque voglia sostenere l’associazione, di poterlo fare, riconoscendosi nel suo progetto politico e volendo ad esso parteciparvi attivamente.
Ed è proprio attraverso la conoscenza della storia dell’UDI, che è un pezzo della storia di tutti, che tanti ragazzi e uomini si sono avvicinati.
Quella memoria è patrimonio comune, in quella memoria ci sono le parole per tutti e per tutte e consolidarla deve essere interesse e obiettivo generale.
La banalizzazione della politica
Paradossalmente, però, a fronte del crescente interesse a partecipare con l’Udi da parte soprattutto di donne e uomini più giovani, il rischio maggiore, oggi, proviene dalla banalizzazione della politica cui assistiamo quotidianamente.
A ciò concorrono, negli ultimi anni, un’idea superficiale di ‘libertà di scelta’ delle donne, che spesso si traduce in nuovi vincoli e costrizioni: leggi contro la violenza sulle donne che spesso non tengono conto della soggettività delle donne e senz’altro una distopica idea di “potere” ereditata da decenni di politica ‘muscolare’.
Ecco, allora, che troviamo tante donne che, senza riconoscere di trovarsi in posti di grande potere solamente grazie a tutte le altre donne venute prima e che, ancora oggi, garantiscono un argine contro il radicalismo conservatore, preferiscono ottenere consenso dileggiando altre donne, come è anche recentemente avvenuto.
La “Presidenta”
Donne al potere che ironizzano sulla possibilità di essere chiamate “presidenta”, benché nessuno abbia mai pensato di utilizzare in un grottesco “femminile”, un participio presente sostantivato, riconoscibile nel genere solo dall’articolo al femminile o al maschile.
Irridere ad una parola così pregnante di un significato che richiama la Resistenza, l’uguaglianza, la pace, la solidarietà, i migranti, l’ambiente, per farne una macchietta oltraggiosa, è mortificante.
La banalità, e forse l’ignoranza, ancora una volta, si ripresentano in tutta la loro mostruosità e pericolosità.
Ed è anche per questo, assieme al tanto altro qui molto concisamente ricordato, che un’associazione come l’UDI non può che continuare ad esistere, evolvendo nell’impegno come evolve la società, ma tenendo sempre la barra a dritta nella difesa dei diritti, nel rispetto e nella dignità delle donne e degli uomini.