Una collaborazione in tema “EVENTI” tra Dipartimento Studi Umanistici UniFe e CDS
di Annalisa Ferrari
Nell’ambito del Corso di Laurea triennale in Manager degli Itinerari Culturali (MIC) di UniFe, a cui CDS – Centro Ricerche Documentazione e Studi Economico Sociali – partecipa con una collaborazione a titolo volontario, c’è una novità: far affrontare a studenti e studentesse una piccola parte del percorso di studi, “lavorando sul campo”. Non è proprio una novità per un corso che ha come docente l’antropologo Prof. Scandurra, ma è una novità affrontarlo a mani nude, senza il viatico di un manuale di teoria o di specifiche lectio di approfondimento.
Siamo nell’ottobre del 2023 e nei primi incontri tra docente e CDS, si ragiona sulla possibilità di organizzare un percorso sul “come si costruisce un evento” facendo mettere, da subito, le mani in pasta a studenti e studentesse, perché affrontino praticamente tale impegno, facendo leva su innovazione e creatività, senza trascurare l’aspetto di “ricerca”, visto l’ambito accademico in cui ci si muove e cercando di limitare il “fardello” dell’esperienza o della teoria. Con mano leggera, la guida del docente.
L’obiettivo è quello di creare una procedura-base alla quale attenersi in occasione non solo dell’evento che piano piano si va delineando, nella fattispecie a tema “Antropocene”, ma che possa diventare un “modello metodologico” per ogni occasione di analogo impegno, che, in qualità di prossimi Manager degli Itinerari Culturali, studenti e studentesse si troveranno professionalmente ad affrontare.
Ed è così che partendo da iniziali caotici brainstorming, nel dipanarsi delle lezioni, cominciano a rendersi visibili, contenuti, obiettivi, sequenze operative, ruoli, criticità e opportunità. Spesso risolte in maniera innovativa, fuori dagli schemi.
Per non lasciare la briglia troppo sciolta, e per dare anche una visione più esperienziale e testimoniale di quanto sugli eventi è conosciuto, si è pensato di coinvolgere alcuni professionisti: Stefano Bottoni ideatore del Busker Festival, Riccardo Cavicchi della Delphi International, Paolo Vettorello di Studio Sigfrida, il fotografo Giacomo Brini e il professor Marco Belli.
A chiudere il novero di tali importanti testimonianze, Roberto Uberti, che nella sua vita professionale si è occupato anche di formazione e comunicazione. Con la sua lectio finale, si è chiuso il cerchio che dalla pratica sul campo, passando per la metodologia, si è arrivati a definire la teoria.
Con un abbrivio “di scuola”, organizzato volutamente in chiusura del corso per non “alterare” con la teoria, la pratica creativa inizialmente espressa, Uberti ha fissato i principali elementi oggettivi, ma soprattutto soggettivi, che un impegno così poco conosciuto, ma anche così difficile, come quello di Organizzatore ed Organizzatrice di eventi, comporta.
Quella che segue è la versione completa, rispetto a quella esposta in aula, della lectio che ha tenuto: un compendio di saperi e competenze accompagnati dal suggerimento di non smettere mai di imparare.
Il ruolo delle Manager e dei Manager degli Itinerari Culturali nell’eventistica
di Roberto Uberti
1. Consapevolezza di un ruolo
1.1 Le quattro fasi
Le attività di progettazione, presentazione, organizzazione e gestione di eventi costituiscono le fasi centrali di un processo di lavoro che coinvolge molteplici figure professionali a specializzazione cosiddetta verticale: ciascuna di queste attività ha infatti bisogno di vocazioni professionali specifiche, in grado di garantire la migliore solidità intrinseca di ciascuna di esse.
E così, progettare un evento richiederà figure capaci di ingaggiare stimoli creativi per sviluppare idee operative convincenti ed efficaci; presentare il progetto alla committenza richiederà la capacità di mettersi in tale sintonia con le aspettative della committenza stessa da far sembrare il risultato ottenuto come “partorito in simbiosi”; organizzare un evento richiederà professioniste e professionisti dotati di senso del realismo e di notevole razionalità, provvisti del necessario rigore operativo per tradurre in accadimenti reali, concreti, ciò che fino a quel momento è solo un insieme di idee sulla carta; e, infine, la gestione di eventi richiederà la presenza di figure professionali dotate di sangue freddo, dedizione no limits, lungimiranza ed equanimità per garantirne il successo.
1.2 Quattro fasi più due: ex ante ed ex post
Quattro fasi, dunque, considerate essenziali nel processo di “eventistica” (concedendoci un neologismo sul quale l’Accademia della Crusca ha storto un po’ il naso, ma che per capirci usiamo lo stesso), che tuttavia non potrebbero funzionare senza due altre componenti non meno importanti, l’una collocata prima e l’altra collocata dopo tale processo.
1.3 Il bisogno: motore iniziale – Il risultato: obiettivo raggiunto
Stiamo parlando da un lato di ciò che sta a monte, ovvero della nascita del bisogno di realizzare un evento e, soprattutto, della capacità di intercettare questo bisogno ex ante. Raramente il desiderio di realizzare un evento nasce dall’ispirazione improvvisa ed estemporanea di un committente; è, piuttosto, il frutto di un ragionamento che muove dal desiderio di superare criticità di vario tipo (di immagine, di profitto, di sviluppo, ecc.) o di promuovere un’idea, un prodotto, o di celebrare un particolare momento culturale, artistico, istituzionale, aziendale, personale.
Non è necessariamente compito della committenza essere artefice del percorso logico-deduttivo dal quale emerge il bisogno di realizzare di un evento. Tale compito spetta anche a chi supporta la committenza, aiutandola a vedere con lucidità e con il miglior anticipo possibile (pre-vedere) i vantaggi e gli svantaggi derivanti dal fare o dal non fare certe cose, nel nostro caso un evento. La committenza, poi, deciderà sulla base delle proprie valutazioni quale strada percorrere, ma in ogni caso toccherà a chi si trova al servizio della committenza rivestire il ruolo professionale di consulente, di colui o colei che si prende cura e pensiero di qualcosa e che per questo si consulta (consulente, detto anche counselor, deriva dal latino consulere: discutere, esaminare, consultare).
Dall’altro lato parliamo dell’attività di verifica dei risultati che sono scaturiti dall’evento, ossia della capacità di analizzare ex post, ancora una volta con lucidità e con evidenze oggettivamente documentabili, se e quanto il divario tra il punto da cui si era partiti e il punto in cui si è arrivati si sia effettivamente colmato grazie a quell’evento. Torna qui in gioco il counselor o la counselor (o il team di counselor) che aveva suggerito e sostenuto con la committenza l’opportunità di realizzare quell’evento, per prendersi le proprie responsabilità (responsus habilis) e, appunto, rispondere tanto di ciò che ha funzionato quanto di ciò che ha funzionato meno o che non ha funzionato affatto. Né per essere santificati né per essere puniti, ma per individuare, in entrambe le circostanze, ciò su cui vale la pena sviluppare ulteriori azioni di rinforzo e ciò che è meglio lasciar perdere. Il tutto, ovviamente, mettendo in chiaro sul piatto tanto il costo sostenuto dalla committenza per l’investimento quanto il ricavato, spesso non solo materiale ma più facilmente qualitativo, reputazionale, motivazionale (purché, come si diceva sopra, adeguatamente documentato e non basato solo su sensazioni o emozioni; in una parola il ROI – Return on investment).
1.4 Manager degli Itinerari Culturali: ruolo, competenze e talenti
Il ruolo di Manager degli Itinerari Culturali, anche quando è chiamato a occuparsi di eventi, non richiede competenze necessariamente verticali, come per gli specialisti citati in apertura, ma soprattutto orizzontali: è sicuramente un ruolo di counselor, ma è anche un ruolo di regista, di chi coordina e governa tutte le fasi, è colei o colui che ha la visione d’insieme, che non deve per forza conoscere nel dettaglio le tecnicalità insite in ogni segmento del processo, ma ne possiede la sensibilità. È colui o colei che conosce non tanto il merito delle cose, ma conosce il metodo per metterle in fila, per organizzarle, per governarle e farle funzionare.
Ebbene sì: il manager e la manager degli Itinerari culturali non sono specialisti del merito, ma specialisti del metodo. Sono metodologi.
1.5 Dalla conoscenza alla consapevolezza cosciente: un’introspezione quasi filosofica
Un approccio corretto richiede in primo luogo lo sviluppo di una vera e propria consapevolezza di ruolo.
Ciò può sembrare, superficialmente, una tautologia (è ovvio che fare qualcosa richieda conoscere quel qualcosa), ma vedremo che non lo è affatto: quando parliamo di “consapevolezza” non parliamo di “conoscenza”.
La consapevolezza si trova a un livello più profondo della conoscenza, ne costituisce come la base, la premessa. Conoscere qualcosa, qualsiasi cosa, senza esserne prima consapevoli e senza aver chiaro che ne abbiamo consapevolezza, rappresenta una condizione pericolosa perché presenta il forte rischio di bloccarci nelle convinzioni che abbiamo, rendendoci incapaci di evolvere e di migliorare. È la condizione delle abitudini. È la condizione di chi non è più consapevole di ciò che sa e del perché lo sa. Il punto cruciale è che chi non è consapevole di ciò che sa, nemmeno è consapevole di ciò che non sa: l’inconsapevolezza vieta alla conoscenza di funzionare.
Non essendo consapevoli di ciò che si sa, d’istinto si ritiene più che sufficiente ciò che si conosce, si ritiene cioè non aver bisogno di sapere qualcosa di diverso o qualcosa di più o di meglio. Facciamo un esempio: una volta che ho imparato a guidare un’auto, la conoscenza che ho acquisito mi fa agire alla guida in modo pressoché automatico, non ho bisogno di pensare come innesto la marcia, come devo premere l’acceleratore, come si frena. Sono tutte azioni che, con l’andar del tempo, eseguirò istintivamente, senza più pensarci. So farle, ma perderò l’esatta consapevolezza di saperle fare. Se me lo chiedessero, probabilmente risponderei senza pensarci troppo: “le so fare perché le ho imparate”. Non credo che risponderei: “le so fare perché, dopo averle apprese nella teoria, ho potuto applicarle nella pratica con tale frequenza da farle diventare comportamenti automatici”. Saranno cioè diventate azioni così abitudinarie che farò molta più fatica a – o addirittura rifiuterò di – imparare azioni che sostituiscano quelle che sono abituato a fare (per esempio perché nel frattempo sono intervenute evoluzioni tecnologiche o funzionali che richiedono un modo diverso di innestare la marcia, di accelerare o di frenare).
Per sondare il tema della consapevolezza dobbiamo scendere molto in profondità nei meandri del nostro essere, fino a lambire i confini della nostra stessa coscienza. Del resto, l’etimologia stessa della parola coscienza la dice lunga: cum-scire, sapere con. “Con” che cosa? È proprio quel “con” a fare la differenza. Coscienza vuol dire sapere “con” la consapevolezza di saperlo. Il motto con cui si dichiara di “agire secondo scienza e coscienza” è molto impegnativo: ci fa dichiarare che le nostre azioni sono state, o saranno, messe in atto non soltanto sapendo “come” farle in senso tecnico (il sapere tecnico), ma anche sapendo “perché” farle (il sapere funzionale). Giustificandole. E questo perché deriva esclusivamente dell’avere la consapevolezza cosciente di sapere.
Essere consapevoli di sapere è però anche l’anticamera della consapevolezza opposta, cioè quella di non sapere. Quando si raggiunge il perfetto equilibrio tra ciò che so di sapere e ciò che so di non sapere mi trovo nella condizione migliore per creare, inventare, innovare. Per superare le abitudini e progredire. Diversamente resterò prigioniero di ciò che so, senza figurarmi che possa esistere qualcosa di migliore, che ancora non conosco ma che aspetta di essere conosciuto.
A me la scelta: o morire nello stagno delle abitudini (ma anche nell’agio della mia comfort zone), o vivere nel fiume delle scoperte (ma anche nel disagio del mettermi in continua discussione).
1.6 Ma torniamo alla consapevolezza di ruolo
Genericamente: ruolo è l’immagine che viene proiettata di noi stessi nei diversi contesti in cui viviamo. Rivestiamo di volta in volta ruoli diversi, che si intersecano e si sovrappongono continuamente: ruoli naturali (uomo, donna, ecc.), ruoli sentimentali (fidanzato, fidanzata, amante, amico, amica, ecc.), ruoli familiari (figli, figlie, madri, padri, sorelle, fratelli, ecc.), ruoli sociali (amiche, amici, conoscenti, vicini di casa, ecc.), ruoli professionali, e così via. Di noi stessi diamo una certa immagine nei diversi ruoli che interpretiamo. Ora, un’immagine non è mai univocamente e oggettivamente percepita: un conto è come la vediamo noi, un altro è come la vedono gli altri, un conto è come noi crediamo che gli altri la vedano, un altro è come noi vorremmo che gli altri la vedessero, un conto è come gli altri pensano di vederla, un altro è come gli altri raccontano ad altri ancora come la vedono, e così via, potremmo andare avanti a enumerare all’infinito proiezioni di noi stessi sempre più sofisticate. Insomma, anche il nostro ruolo, nei differenti momenti storici e nei differenti contesti sociali in cui viene agito, esiste solo grazie a una terzietà che lo osserva.
Ma nella solitudine del nostro io più profondo non ci sono ruoli: io sono io, senza interpretazioni terze.
Il ruolo è dunque qualcosa che è inevitabilmente soggettivo, la cui soggettività è per di più duplice: da una parte la soggettività di chi interpreta un ruolo, dall’altra la soggettività di chi osserva l’interpretazione di quel ruolo. Un ruolo può essere dichiarato anche con proclami formalmente tassativi e imperativi, ma se chi lo deve interpretare e chi ne deve decodificare l’interpretazione che ne viene fatta non ne riconosce la coerenza e la credibilità, quel ruolo, pur esistendo sulla carta, non esiste nei fatti. Prendiamo il ruolo di un leader politico e chiediamoci perché ci sono leader di grande successo (nel bene e, purtroppo, nel male) e perché ci sono leader che, pur proclamandosi tali, o pur essendo stati proclamati tali, nei fatti non lo diventano veramente. Nel primo caso si avvera una sorta di “incontro perfetto” tra la capacità del leader di interpretare ciò che gli altri si aspettano da un leader in quel momento storico e in quel contesto sociale (“cosa si aspettano gli altri da un leader?”) e la capacità del leader di comportarsi in modo che gli altri gli riconoscano la sua leadership (“cosa mi aspetto io dagli altri?”; “Come devo comportarmi per far sì che gli altri rispondano alle mie aspettative?”). Un re, anche se formalmente incoronato, non è nessuno se i suoi sudditi non gli riconoscono il potere regale, e non è nessuno nemmeno se il suo modo di agire non corrisponde alle aspettative che i suoi sudditi hanno di un re, cioè del concetto astratto di “regalità” calato in quel momento storico.
1.7 Le aspettative rispetto al ruolo individuale e al ruolo relazionale
Figura 1
Il ruolo è allora fortemente, indissolubilmente connesso al concetto di “aspettative”. Aspettative che ha chi deve interpretare quel ruolo, aspettative che hanno coloro che sono chiamati a riconoscere quel ruolo. Perciò potremmo introdurre una distinzione che ci tornerà utile nella nostra disamina: la distinzione tra ruolo individuale e ruolo relazionale (v. Figura 1). Il primo è visibile solo a noi, il secondo è visibile a noi e agli altri. Dall’equilibrio tra questi due punti di osservazione dipende l’essenza stessa del ruolo.
1.8 Acquisire consapevolezza di sé (chi sono? da dove vengo? dove vado?) per capire che ruolo giocare
Per comprendere come si gioca questo equilibrio e in quale rapporto si situino le componenti individuali rispetto alle componenti relazionali è utile riflettere sul movimento interiore che il nostro io profondo intraprende per trasformare l’impalpabilità della coscienza in comportamenti visibili e generare risultati.
Figura 2
Come si osserva dalla schematizzazione di Figura 2, possiamo rappresentare il nostro essere come un iceberg, costituito da una porzione che gli altri non vedono, ma che vediamo noi, e da una porzione che vedono gli altri e che vediamo anche noi (1). Nella parte più profonda dell’iceberg si trova innanzitutto la nostra identità: è il punto più intimo del nostro essere, è dove noi siamo assolutamente soli con noi stessi e ce la dobbiamo vedere con le grandi domande dell’esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? In cosa credo? È qui che si trova il nocciolo della nostra coscienza, potremmo dire il kernel del nostro sistema operativo umano, quello che imprime e caratterizza in modo indelebile la nostra personalità e il nostro carattere (2).
1.9 Un’evoluzione che da identità, valori, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti, porta ai risultati
La coscienza umana evolve a partire dall’identità e intraprende una sorta di movimento anabatico salendo a un livello superiore, dove si sviluppa il nostro personale sistema di valori. A questo livello avviene l’elaborazione di quelle che sono le nostre domande identitarie trasformandole in principi, in indirizzi di vita, cioè in qualcosa che dia una forma più specifica alla nostra identità. Siamo ancora nell’astrazione e nella generalizzazione (per esempio: il perseguimento dell’onestà, il primato della famiglia, il rispetto delle persone, la difesa degli animali) ma i valori costituiscono quel complesso di cose in cui crediamo fermamente, ovvero ciò che consideriamo non negoziabile o, almeno, molto difficilmente negoziabile.
Siamo nell’astrazione, dicevamo, ma la nostra natura umana, l’esistere stesso, non essendo fatto di pura astrazione, ci obbliga a dare progressivamente forme ancora più concrete al pensiero. E quindi la nostra personale anabasi sale di un ulteriore livello, iniziando a delineare, dai nostri valori, quelle che sono le nostre convinzioni. Siamo in uno strato che non è ancora pienamente concreto e materiale, ma è qui che progettiamo il modo di dare concretezza a ciò in cui crediamo, è qui che ci chiediamo come applicare il nostro sistema valoriale agli eventi della vita, è qui che vengono costruite le nostre opinioni. Qui è dove mettiamo i paletti in base ai nostri valori: fin qui va bene, oltre non va bene; questo mi piace, questo no; questo lo considero giusto, questo lo considero sbagliato, e così via. Il passare degli anni e l’esperienza diretta forgiano silenziosamente dentro di noi questo complesso di opinioni e di convinzioni. A questo livello la negoziabilità è già più accettabile: mentre molto difficilmente sono disposto ad abbandonare o a modificare un valore, mi è più facile cambiare opinione su qualcosa, a condizione – ovviamente – che la mia nuova opinione non contrasti con i miei valori.
Ma l’anabasi prosegue ancora: a questo punto, una volta elaborate le mie opinioni e quindi le mie convinzioni, iniziano a emergere i miei atteggiamenti, ossia il modo con cui mi relaziono e mi pongo nei confronti dell’ambiente che mi circonda. È l’embrione della mia vita relazionale, qui inizio a uscire allo scoperto (non a caso, nel disegno visto sopra, questo livello si trova al pelo dell’acqua: è come se mettessi il naso fuori, gli altri iniziano a vedermi e io inizio a vedere gli altri o, meglio, a relazionarmi con gli altri). È questo, probabilmente, il livello più delicato perché, più di tutti gli altri, è quello che determina non i contenuti, ma i modi: e, come sappiamo, nella percezione umana della comunicazione interpersonale, la relazione assume un ruolo preponderante rispetto al contenuto3.
1.10 Cosa comunicare, come comunicarlo: contenuto e relazione
Per relazione intendiamo il tipo e il grado di legame che esiste tra i comunicatori, che può essere di parentela, di amicizia, di lavoro, di amore, ecc. La relazione influisce sul modo in cui le persone si percepiscono, si trattano e si rispettano reciprocamente. Il contenuto si riferisce invece al messaggio che viene trasmesso, che può essere informativo, persuasivo, emotivo, divertente, ecc. Il contenuto dipende dallo scopo, dall’argomento e dal pubblico della comunicazione. Per comunicare in modo efficace ed efficiente, l’equilibrio tra relazione e contenuto, cioè tra il livello di coinvolgimento emotivo e il livello di informazione razionale, diventa essenziale. Se si privilegia troppo la relazione, si rischia di trascurare il contenuto, di essere vaghi, superficiali o irrilevanti. Se si privilegia troppo il contenuto, si rischia di trascurare la relazione, con il risultato di essere percepiti freddi, distanti e, naturalmente, inefficaci4.
1.11 Nomina sunt consequentia rerum (5)
A questo punto la nostra personale anabasi ci fa uscire allo scoperto e i nostri atteggiamenti sfociano finalmente nei nostri comportamenti. A questo livello tutto è visibile, sia a me sia agli altri. A noi interessa ricordare e tenere ben presente che nessun nostro comportamento è un frutto casuale di qualcosa di indefinito, ma è il risultato ben preciso di un tragitto anabatico che abbiamo percorso, più o meno consapevolmente, da molto in profondità, addirittura partendo dalla nostra identità. E con i nostri comportamenti affidiamo all’ambiente il compito di determinarne i risultati, ossia gli accadimenti generati dall’esterno come reazione ai miei comportamenti e che hanno un riflesso diretto su di me. Io, come individuo, dovrò comprendere e valutare se si tratta di risultati desiderati o indesiderati.
Quest’analisi viene fatta invertendo il tragitto e intraprendendo un percorso catabatico che, dall’osservazione dei risultati, mi porterà a valutare i comportamenti che ho attuato, i quali mi porteranno agli atteggiamenti che hanno determinato quei comportamenti, da cui passerò a individuare quali convinzioni e opinioni mi hanno indotto ad atteggiarmi in un modo o in un altro, da cui potrò verificare se ho utilizzato atteggiamenti coerenti con le mie convinzioni, con i miei valori e, infine, con la mia stessa identità. Se, nel corso di questa catabasi, incontrerò un inciampo, cioè qualche elemento che non si è messo correttamente in relazione con gli altri, potrò ripartire con una nuova anabasi fino a rimodulare ciò che serve (con difficoltà decrescente: identità, valori, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti) in funzione dei risultati che desidero ottenere.
La riflessione sugli infiniti percorsi anabatici e catabatici che noi, quasi sempre inconsciamente, intraprendiamo per adattarci al mondo o, meglio, per adattare in modo continuo la nostra interpretazione del mondo al fine di ottenere i risultati che desideriamo, ci aiuta a dare ulteriore luce al tema delle aspettative di ruolo che avevamo introdotto sopra.
1.12 Ruolo naturale e ruolo relazionale
Figura 3
Nella parte più profonda e più intima si costruisce quello che possiamo considerare il nostro personale ruolo naturale, cioè l’insieme delle aspettative individuali: quali sono i risultati che voglio ottenere elaborando identità, valori, convinzioni e atteggiamenti, per poi uscire allo scoperto, manifestando e rendendo visibile anche agli altri il mio ruolo relazionale. Si manifestano i miei comportamenti e ottengo risultati. E posso, anzi devo, confrontare quei risultati tra ciò che mi aspettavo e ciò che è successo per verificare cosa si è rivelato coerente e cosa invece non ha funzionato tra ciò che mi aspettavo dagli altri e ciò che gli altri si aspettavano da me (v. Figura 3).
Un’analisi seria e lucida del successo o dell’insuccesso dei risultati ottenuti ci porterà invariabilmente a osservare che il nostro ruolo, in quel determinato contesto sociale e in quel determinato momento storico, è solo in minima parte costituito da quello che facciamo, dal “cosa”. Ciò che fa realmente la differenza, per tutti i motivi analizzati sopra, è “come” lo facciamo. Est modus in rebus, dicevano già gli antichi (6): il modo con cui si fanno le cose determina il loro successo o il loro insuccesso, determina in sostanza il loro essere coerenti con il ruolo.
2. Consapevolezza del contesto (o dei contesti)
Per comprendere meglio cosa intendiamo quando parliamo dell’importanza del “come”, dobbiamo spostare il nostro sguardo dall’interno di noi stessi, come abbiamo fatto nelle riflessioni precedenti, all’esterno e acquisire innanzitutto consapevolezza di ciò che caratterizza il contesto storico in cui andiamo a giocare il nostro ruolo.
2.1 Velocità, conoscenza, complessità e il ruolo di Manager degli Itinerari Culturali
Viviamo in un’epoca caratterizzata dal continuo, inarrestabile aumento di almeno tre fattori: velocità, conoscenza e complessità.
Parliamo di velocità quando ci riferiamo alla progressiva, esponenziale rapidità con cui nei millenni l’essere umano ha imparato a maneggiare le proprie risorse fisico-cognitive e a trasformare le risorse naturali per ottenere strumenti sempre più utili a migliorare il proprio benessere in tutti i campi. Una rapida occhiata alla sequenza temporale con cui si sono succedute scoperte e invenzioni a partire dalla comparsa sulla faccia della terra dell’homo erectus, circa tre milioni e mezzo di anni orsono, mette immediatamente in evidenza un’accelerazione progressiva, inarrestabile e continua, simile all’accelerazione che subisce una sfera posta su un piano inclinato. Se riproporzionassimo a 100 il tempo trascorso da tre milioni e mezzo di anni fa a oggi, vedremmo che quasi l’89% di questo tempo è servito all’essere umano solo per imparare a cercare il cibo e a combattere il freddo delle ere glaciali. Nel successivo 10% del tempo l’essere umano ha scoperto il fuoco, ha iniziato a codificare il linguaggio, ha messo a punto in modo stabile le pratiche dell’allevamento, dell’agricoltura, della scrittura, ha inventato la ruota e ha costruito le piramidi. Nel seguente 0,9% del tempo è nato l’Impero Romano, è stata inventata la stampa, sono stati scoperti i vaccini ed è iniziata la rivoluzione industriale. Nell’ultimo 0,1% del tempo è stata inventata la fotografia, l’automobile, sono stati inventati cinema, radio, televisione, è iniziata la rivoluzione dei computer, si è andati sulla luna, e infine internet e gli smartphone hanno pervaso totalmente le nostre vite.
Questo giochino ci dà la misura di una dimensione del tutto ignota alle generazioni che ci hanno preceduto nei secoli. Potremmo dire che la velocità è una scoperta del secolo scorso, quindi recentissima: i futuristi, che celebrarono appunto la velocità come uno dei loro miti e spostarono il concetto dell’idolatria come era noto fino a quel momento, centrato su simboli materiali o su raffigurazioni scultoree o pittoriche portandolo su un simbolo immateriale come la velocità, ebbero il merito di interpretare e di narrare un dato di fatto, cioè una tendenza all’accelerazione che andava sempre più visibilmente aumentando nella vita sociale, culturale, economica, politica e commerciale.
Questa accelerazione permanente e continua della velocità è un elemento che, piaccia o non piaccia, governa e condiziona la nostra vita. Qui non vogliamo dare un giudizio di merito circa il valore o il disvalore della velocità: numerosi sono i movimenti che hanno la parola “slow” come loro tratto distintivo (slow food, slow living, ecc.) proprio per denunciare i nefasti effetti che l’essere umano paga in termini di stress individuale e di disagio psicosociale derivanti da un eccesso di velocità nelle dinamiche relazionali e professionali. In questo studio vogliamo solo mettere in evidenza che fa parte delle competenze del ruolo professionale anche l’acquisizione di consapevolezza della dimensione della velocità come un elemento che condiziona tutte le dinamiche e che, pertanto, condiziona anche il gioco delle aspettative, che abbiamo visto essere costitutivo di ogni ruolo.
Un secondo ambito che, forse più di altri, subisce fortemente il condizionamento di questo aumento esponenziale della velocità è, per forza di cose, l’ambito della conoscenza. Proprio a causa della velocità, qualsiasi cosa venga appresa in un dato momento della vita non può più essere considerata monoliticamente valida per sempre, come si è fatto per millenni: ci tocca invece acquisire la consapevolezza che quella determinata conoscenza sarà probabilmente già superata il giorno dopo. Questo non significa, naturalmente, abbandonare per disperazione l’impegno ad apprendere e ad acquisire conoscenze! Significa piuttosto sviluppare un approccio diverso al concetto di conoscenza, dove il focus fondamentale del processo didattico si sposta dal docente al discente. È infatti quest’ultimo, non più il primo, ad avere il dovere di sorvegliare l’obsolescenza delle proprie conoscenze e la responsabilità di intercettare e governare la velocità con cui le stesse mutano, adattandole di conseguenza ad un nuovo, aggiornato sapere.
È, questa, l’epoca in cui l’apprendimento non è più qualcosa di confinato nell’ambito scolastico, che si esaurisce contestualmente al terminare del suo tradizionale percorso. Questa è l’epoca dell’apprendimento continuo, in cui, più che in passato, è richiesto il coraggio di riconoscere di “non sapere”, quindi di disimparare e imparare continuamente. “Conoscere come conoscere” è la nuova conoscenza da acquisire. Fa parte della consapevolezza di ruolo l’interpretazione di questo movimento cognitivo, per avere la capacità di governare autorevolmente – di nuovo – il gioco delle aspettative.
Tutto questo si inscrive necessariamente in uno scenario caratterizzato da una sempre maggiore complessità. L’interpretazione del ruolo sarà tanto più coerente quanto più, chi interpreta quel ruolo, è consapevole che i fenomeni che lo intersecano (relazionali, professionali, sociali, economici, politici e culturali) sono condizionati da un crescente numero di variabili in costante evoluzione, tra loro sempre interdipendenti pur se apparentemente lontane. Al ruolo professionale di chi si occupa di eventi è richiesto di saper gestire questa complessità, di saperla governare. E questa capacità risiede proprio nel saper individuare i collegamenti, spesso sottili e sorprendenti, tra più variabili, e sfruttare questi collegamenti in modo da ottenere intuizioni vincenti che generino risultati vincenti.
2.2 Gli eventi esistono come antidoto all’incertezza
Che cosa comporta, per l’essere umano, l’incremento esponenziale della velocità nelle vicende del mondo e della vita? Che conseguenze ha il dover constatare che, quasi da un giorno all’altro, le mie conoscenze diventano obsolete se non le aggiorno? Che cosa succede davanti all’inestricabile groviglio della complessità che ogni giorno ci si para crudelmente davanti e appare come un mostro di dimensioni ciclopiche? Succede quello che è cronaca ormai ordinaria: l’aumento della complessità e della velocità con cui le cose cambiano costringe le persone a elevare costantemente i propri livelli di attenzione e di adattamento, generando ansia da prestazione, senso di inadeguatezza, timore dell’abbandono sociale, perdita di identità, desiderio di indifferenza e di estraniazione.
Tutto questo, generando livelli sempre crescenti di incertezza, può spesso sfociare in fenomeni estremi, come l’aumento della gravità dei disordini sociali o l’incremento della delittuosità (e, su un piano internazionale, purtroppo nelle guerre), ma più subdolamente sfocia in fenomeni di destabilizzazione spicciola che incidono sulla qualità della vita di ogni persona: e così aumenta lo stress, aumentano l’insoddisfazione e la frustrazione, aumenta il bisogno di affermare con forza se stessi e la propria individualità, tanto che è ipotizzabile ricondurre alla conseguenza di un diffuso disagio anche il fenomeno della dilagante, talora drammatica aggressività verbale testimoniata dai social.
Per le aziende aumenta la necessità di stare saldamente a galla su un mercato sempre più difficile, capriccioso e competitivo: uno scenario che ha certamente mandato in crisi, negli ultimi decenni, i tradizionali modelli professionali, manageriali e di business. E più si è fatta sentire questa crisi, più si è assistito a un aumento del bisogno di organizzare eventi. Questo ci porta a pensare a una cosa: che un evento è un antidoto all’incertezza perché è il momento in cui si catalizzano e si condividono risultati, progetti e obiettivi, è un momento in cui si celebra la propria presenza e il momento in cui si afferma la propria identità. Ne consegue che l’incertezza è anche una straordinaria opportunità per chi sa organizzare, coordinare e gestire eventi, perché è a lei o a lui che ci si rivolgerà per contrastarla.
3. Competenze e competizione (o “coopetizione”?)
Qui entriamo nel tema delle competenze (7), ricordando in primo luogo che possedere competenze consente di competere. “Competere” è un verbo che evoca facilmente il concetto di gara, di situazione in cui vince chi arriva primo, magari conquistando tale primato con mezzi non sempre leciti o perlomeno connotati da quell’astuzia non necessariamente illegale, ma “da furbetti”. Qui non vogliamo dare a questo verbo un significato che sia percepito come poco etico: non è certo nelle nostre intenzioni, ma è indiscutibile che, ai nostri fini, dobbiamo considerare la competizione come qualcosa di sano in quanto permette l’emergere di innovazione, di miglioramento e, in definitiva, di progresso.
Nel nostro ragionamento vogliamo sottolineare che le competenze possiedono una triplice valenza: ci rendono competenti, ci fanno competere e ci rendono cooperanti, nel senso che rendono il nostro operare un co-operare, insieme a quello di miliardi di altri esseri umani, per il progresso e il benessere. Con le nostre competenze, quindi, operiamo e co-operiamo. Questa vocazione collettiva delle competenze, non sempre così evidente, potrebbe essere chiamata, anche se il termine è stato utilizzato con accezioni un po’ diverse, “coopetizione” (8). Le competenze hanno perciò un valore qualitativo che non si ferma al puro insieme di nozioni tecniche individuali, ma si espande, abbracciando l’universo comportamentale del professionista e della professionista in qualsiasi campo, per poi estendersi all’universo umano.
Ciò che vorremmo qui introdurre è soprattutto l’importanza delle competenze modali, quelle che appunto connotano il modo con cui ciascuno agisce il proprio ruolo professionale. Non ci soffermeremo, quindi, sulle competenze tecniche, dando per assodato che esse siano ampiamente e sufficientemente patrimonializzate.
3.1 Sapere, saper fare, saper essere
Di base, definiamo le competenze come l’insieme delle conoscenze, delle abilità e dei comportamenti. Per “conoscenze” intendiamo la dimensione del sapere, delle nozioni. Per “abilità” intendiamo la dimensione del saper fare, dell’applicazione. Per “comportamento” intendiamo la dimensione del saper essere. Sono tre dimensioni che agiscono sempre contemporaneamente, ma che affondano le loro radici in tre contesti temporali differenti. Le conoscenze derivano dal passato (non importa quanto remoto: potrei aver appreso qualcosa di nuovo anche dieci minuti fa), le abilità si sviluppano nel momento presente, mentre il comportamento determina quello che sarà il risultato, che è collocato nel futuro.
Riflettere su questo continuum temporale in cui si sviluppano le competenze è prezioso, perché ci consente di osservare che la carenza di un solo anello rompe tutta la catena. Si possono possedere conoscenze strabilianti e abilità eccelse, ma se si è carenti in termini comportamentali il risultato sarà un disastro. Viceversa, si può esprimere un comportamento inappuntabile, ma senza abilità e conoscenze si resterà soltanto dei “venditori di fumo”.
3.2 La dimensione comportamentale
Figura 4
Dovremo insistere un po’ sulla dimensione comportamentale, ovvero su ciò che so essere, perché rientra nella sfera di ciò che non è dato per scontato. In tutte le professioni si dà sempre per scontato che il professionista e la professionista che le esercitano ne abbiano le conoscenze e ne possiedano le abilità. Ciò che non è mai dato per scontato, invece, è il modo con cui esprimeranno ciò che conoscono e ciò che sanno fare. Eppure, come vedremo, è proprio il modo a fare la differenza, in certe professioni più che in altre (v. Figura 4).
Per fare un esempio a caso: mentre è scontato che un autista di autobus conosca il codice della strada e sappia guidare un bus, non è affatto scontato che quell’autista sia anche così attento al benessere dei suoi passeggeri da impostare uno stile di guida rispettoso e morbido. Senza nessuna critica nei confronti della categoria, è innegabile che vi siano autisti la cui guida è ruvida, nervosa, strattonata, indifferente agli sballottamenti dei passeggeri, mentre ve ne sono altri che accelerano, frenano e impostano le curve con morbidezza e gradualità.
Quale vantaggio questi ultimi ne ricavano rispetto ai loro colleghi più “sportivi”? Nessun vantaggio evidente, perché la professione di autista non viene valutata e remunerata su queste cose: lo fanno perché amano il loro mestiere e amano forse trattare con più sensibilità i passeggeri che sono loro affidati. Semplicemente, si sentono bene con sé stessi, si sentono tranquilli con la propria coscienza perché sanno di aver lavorato bene e questo basta. Sono chiaramente dei piccoli eroi a cui va la nostra gratitudine. Più prosaicamente: quello dell’autista di autobus è un ruolo professionale in cui è determinante la corretta esecuzione materiale della mansione affidata, mentre il modo di interpretarlo (ovviamente entro i normali limiti che sono richiesti a chiunque conduca un veicolo con passeggeri a bordo) è superfluo.
Ci sono professioni in cui, invece, si viene valutati soprattutto per i risultati immateriali che si conseguono (come, appunto, la professione di Manager degli Itinerari Culturali): appare evidente che, in questo tipo di ruoli, il modo di essere, l’attenzione relazionale, la sensibilità di contesto, la capacità di intuire e di collegare con saggezza cause ed effetti, sono richieste, ma non sono date per scontate. Sono queste attitudini ad avere un peso enormemente maggiore di ciò che è dato per scontato, cioè le conoscenze e le abilità. Possiamo, anzi, tranquillamente affermare che il tratto comportamentale è quasi una componente obbligatoria di ruolo: per dirla semplice, si viene pagati “anche” (e forse soprattutto) per come vengono fatte le cose.
Il tema comportamentale obbliga a una riflessione ulteriore. Consideriamo il comportamento, in questo contesto e in questo studio, come il modo di agire degli individui o dei gruppi sociali in funzione delle norme, dei valori e delle aspettative della società (9). Di nuovo emerge il tema delle aspettative: come si vede, dunque, tutto ciò che è ruolo è intimamente connesso a tutto ciò che è comportamento, non essendo sufficiente, nell’esercizio del ruolo, di qualunque ruolo, cosa si conosce e cosa si sa fare.
Tutto ciò ci porta a riflettere a un livello più profondo: se il modo di interpretare un determinato ruolo professionale assume, qualitativamente parlando, un’importanza tanto rilevante, è evidente come sia necessario un veicolo cognitivo che consenta di mettere in correlazione l’insieme delle conoscenze e delle abilità che possiedo con il modo con cui le agirò nel mio ruolo. Tale veicolo cognitivo è naturalmente il pensiero: vogliamo con ciò affermare, molto banalmente, il primato del pensiero: tutto ciò che facciamo, prima di essere fatto deve essere necessariamente pensato.
3.2.1 Il pensiero: il più potente dei veicoli cognitivi
L’azione del pensare è cosa naturale, automatica. Meno naturale, proprio in quanto automatico, è associare al pensiero la volontà di essere pensato. Gramsci, giustamente, censurava il “pensare senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè partecipare a una concezione del mondo imposta meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente” (10).
Interpretare un ruolo professionale in cui è richiesto – non atteso, come dicevamo, ma implicitamente richiesto – un livello qualitativo che si gioca sul modo di interpretarlo, richiede consapevolezza critica di quel ruolo e richiede quindi che quel ruolo sia prima di tutto pensato, progettato da sé stessi. È per questo che ci soffermeremo ora sulle competenze cosiddette soft (ma che nel nostro ragionamento diventano invece hard, dovendo esse costituire l’essenza fondamentale del ruolo professionale che stiamo esaminando), che costituiscono il corredo, a nostro parere, fondamentale e fondante di ogni ruolo in cui la differenza è data dal modo di interpretarlo.
3.2.2. Sapere
Ovviamente il complesso delle cosiddette “nozioni” è la base fondamentale da cui non si può e non si deve prescindere. Qui, però, vorremmo ampliare il concetto di “nozione” provando a togliergli quella patina di “meccanica mnemonica” che la parola potrebbe evocare. Naturalmente le nozioni sono costituite in primo luogo da ciò che si manda a memoria, questo è fuori discussione. Se non avessimo questo corredo cognitivo non avremmo alcuna base su cui fondare il nostro sapere. Ciò che ci aiuta a fare un passo in avanti è considerare che il sapere non è fatto soltanto da nozioni che apprendiamo da altri, ma anche da nozioni che apprendiamo da noi stessi attraverso l’elaborazione di ciò che abbiamo appreso da altri. È un’elaborazione ottenuta da ciò che costituisce la nostra esperienza e il nostro modo di vedere la vita, il mondo, le persone, le cose, le nostre visioni, i nostri sogni e le nostre speranze, il nostro desiderio di distinguerci, di affermare la nostra identità, di trovare il nostro posticino nel mondo.
Il punto che ci interessa è scoprire che le nozioni in sé non hanno mai un valore assoluto, ma sempre relativo: il sapere da solo è inutile, ciò che rende il sapere utile è sempre e solo il nostro modo di interpretarlo. Nel ruolo di Manager degli Itinerari Culturali il peso delle conoscenze tecnico-specialistiche è quasi marginale rispetto al peso di quanto e come conosco, per esempio, il contesto di riferimento, di quanto e come conosco i miei interlocutori, di come conosco me stesso o me stessa. Possiamo considerare anche queste ultime come nozioni, ma, come si vede facilmente, fanno parte di quelle nozioni che dobbiamo trasferire subito dalla memoria all’intelligenza per elaborarle, perché il loro nudo contenuto è del tutto sterile e inapplicabile. Questa capacità elaborativa costituisce il nostro corredo interpretativo, vero punto di forza del sapere. Siamo ancora nella sfera del pensiero pensante, ma è proprio la consapevolezza di sapere o di non sapere (ne abbiamo parlato poco fa) che ci fornisce gli strumenti per poter adeguare il nostro “saper fare”.
3.2.3. Saper fare
Il campo applicativo è l’esito naturale del sapere. Qui giochiamo la partita in campo aperto: mentre nel sapere siamo ancora soli con noi stessi e nessuno vede nulla di noi, nel saper fare diventiamo visibili a chiunque e veniamo valutati. Le competenze del fare vedranno il Manager e la Manager degli Itinerari Culturali costruire progetti, coordinare reti di specialisti, procurare idee, gestire la tecnologia, inventare, innovare. A chiunque sarà manifesto se e come so applicare le mie nozioni.
3.2.4. Saper essere
In professioni a carattere spiccatamente immateriale, come quella di Manager degli Itinerari Culturali, il comportamento, cioè il saper essere, è certamente la dimensione più cruciale. Questo perché stiamo trattando di una professione che in grandissima parte trova la sua ragione d’essere, diremmo il suo core business, nella relazione con gli altri. Ora, poiché ciò che è sottinteso rischia spesso di diventare talmente sottinteso da finire con l’essere dimenticato, è meglio esplicitare chiaramente il sottinteso, anche a rischio di essere banali: un evento, qualunque esso sia, usa ogni genere di pretesto (commerciale, culturale, artistico e così via) per mettere in realtà, al suo centro, sempre e solo la costruzione di relazioni umane. Certo, saranno relazioni differenti a seconda del tipo di evento e degli obiettivi che esso ha: saranno relazioni commerciali, emozionali, motivazionali, culturali, scientifiche e via dicendo. Ma è proprio questa l’essenza che connota il “saper essere” del professionista e della professionista che si occupa di eventi: fare in modo di creare le condizioni perché si sviluppino relazioni giuste nel momento e nel contesto giusto. Sarà quindi il suo stesso modo di costruire relazioni a costituire una parte importante del suo saper essere.
L’equilibrio, l’attenzione e la sensibilità relazionale sono elementi da cui non è possibile prescindere in questa professione.
Gran parte dei risultati dipenderanno non dalle cose che saranno accadute, ma da come si sarà fatto in modo che esse accadano. E in un evento, a parte catastrofi naturali e cause di forza maggiore, nulla accade se non si è agito in modo da farlo accadere. Il successo di un evento si misura anche sul grado di percezione di spontaneità degli avvenimenti, tanto apparentemente spontanei quanto scientemente organizzati e previsti: il risultato, frutto sicuramente di investimenti, di tecnica, di conoscenza, di organizzazione, sarà positivo soprattutto se si sarà attivato un alto livello di relazione, e se e come il Manager e la Manager degli Itinerari Culturali abbiano adeguatamente facilitato le condizioni per attivare tale relazione. Il buon “saper essere” dipenderà dalla coerenza tra il tessuto relazionale creato, la motivazione degli individui, i contenuti e le finalità dell’evento.
Non va dimenticato, infine, che questo ruolo è connotato da una forte leadership: le aspettative – su cui ci siamo ampiamente soffermati – puntano invariabilmente sulla credibilità del comportamento dei e delle Manager degli Itinerari Culturali come leader, come motivatori e motivatrici, come facilitatori e facilitatrici del pensiero, dell’azione e dell’innovazione. Torna a galla, ancora una volta, l’instancabile propensione all’apprendimento continuo che perseguiterà sempre, come un mantra, questa figura professionale a cui è richiesto continuo aggiornamento e di non dare mai nulla per scontato.
E quindi, quali sono le competenze che servono davvero?
Ritorniamo velocemente alle considerazioni sulle quali abbiamo almanaccato circa la natura degli eventi. Abbiamo detto che ogni evento è, in realtà, un antidoto a quell’incertezza che caratterizza in modo ineludibile la stessa condizione umana. Ogni evento serve a marcare l’incerto percorso umano con punti certi, definiti: ci si guarda dietro e si prova a immaginare come andare avanti.
Vale la pena riprendere il tema dell’incertezza ricordando due scienziati che, pur avendo dedicato la loro vita alla chimica, una disciplina che descrive fenomeni certi,
sono arrivati a concludere che nulla di certo esiste. Stiamo parlando in primo luogo di Antoine Laurent de Lavoisier, che nel 1789 definì il “principio di conservazione della massa” (11), universalmente semplificato in: “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Concetto antichissimo, a noi noto dai greci: Empedocle, Anassagora e Democrito sostenevano che “nulla viene dal nulla”. Il merito di de Lavoisier è di averlo dimostrato. E in secondo luogo parliamo di Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica nel 1977, che in una sua pubblicazione scrive lapidariamente che “nell’universo delle probabilità esiste un solo punto fermo: l’incertezza” (12). Se mettiamo insieme Empedocle, de Lavoisier e Prigogine vediamo facilmente che l’incertezza non è altro che divenire, non è altro che trasformazione.
Dedichiamo ora questi principi a spiegare il motivo per cui ogni evento, come abbiamo detto, è un antidoto all’incertezza: lo è perché in ogni evento viene narrata una trasformazione, che per definizione contiene incertezza. E poiché narrare le cose è l’unico modo che l’essere umano sa utilizzare per comunicare in modo ordinato (quindi non incerto) il succedersi delle cose stesse, cioè il loro trasformarsi, narrare le trasformazioni diventa l’unico modo per trovare certezza nell’incertezza che le trasformazioni comportano. È la potenza dello storytelling (13).
Lo storytelling, il raccontare, è infatti l’espediente naturale che apprendiamo fin da bambini per affrontare il futuro, quando i nostri genitori e i nostri nonni ci preparano alla vita raccontandoci fiabe in cui è molto chiaro dove sta il bene e dove sta il male, dove stanno i buoni e dove stanno i cattivi, cosa succede a comportarsi in un modo o in un altro. Lo storytelling è inscritto indelebilmente nel nostro DNA e ce lo portiamo dietro per sempre nella vita adulta: per questo prestiamo istintivamente molta più attenzione quando qualsiasi argomento ci viene raccontato di quella che prestiamo quando ci viene semplicemente e asetticamente descritto. La narrazione ha il potere di comunicare dei punti fermi, di definire, e la definizione, a sua volta, rallenta il caos e placa un po’ l’incertezza.
Sullo storytelling torneremo tra poco.
Da quanto abbiamo appena detto possiamo dedurre che, essendo ogni evento la narrazione di una trasformazione, ed essendo la trasformazione ciò che connota indelebilmente la vita stessa, ogni evento è un compendio della vita. È una sorta di riproduzione in piccolo della vita stessa. E da ciò discende quindi che le competenze occorrenti per chi organizza e gestisce eventi sono le medesime competenze occorrenti anche nella vita.
4. Le magnifiche 7
Un alert prima di entrare nel vivo delle vere e proprie competenze: i prossimi paragrafi affronteranno argomenti quali ascolto, lungimiranza, pazienza e parsimonia, che potrebbero essere interpretati come esclusivamente attinenti alla sfera personale. Ebbene, che attengano anche alla sfera personale è verissimo, ma qui vogliamo sottolineare che ne parleremo esclusivamente come, a nostro avviso, facenti parte importantissima del corredo professionale di chi si occupa di eventi e che, ai fini di queste specifiche riflessioni, consideriamo quelle che seguono specifiche competenze comportamentali di ruolo. Competenze che, pur scevre da considerazioni spirituali, hanno però un innegabile valore e un preciso senso etico. Del resto, la parola “etica” deriva dal greco ἦθος (êthos), che significa appunto “comportamento”: etica e comportamento sono la stessa cosa e parlare di competenze comportamentali significa inevitabilmente toccare il campo dell’etica.
Etica professionale però, che è ciò di cui ci interessa qui parlare.
4.1 Ascolto
È l’arte più difficile del mondo. In greco, arte si traduce con τέχνη, che nella pronuncia moderna sarebbe “téchni”. Parola da cui è derivata “tecnica”, che nella nostra cultura, malgrado alcune espressioni richiamino l’equivalenza tra tecnica e arte (per esempio, quando diciamo che una cosa è fatta “a regola d’arte”, diciamo che è stata applicata correttamente la relativa tecnica), stentiamo a considerarle la stessa cosa: nel nostro parlare comune, tecnica è sinonimo di applicazione materiale, arte ha a che fare con l’espressione di sentimenti ed emozioni. Noi non ci sogneremmo mai di considerare arte una fognatura, per quanto efficiente sia. La nostra visione culturale tende a separare tecnica e arte, mentre la visione greca dell’essere umano considerava di pari dignità artistica una bella scultura e un’efficiente fognatura.
Ascoltare è comunque un’arte, sia nel senso che richiede un corredo interiore abbastanza allenato da far funzionare la nostra sensibilità percettiva, sia nel senso che fa riferimento alla capacità di costruire e attivare creativamente, da tale corredo interiore, un’opera invisibile e immateriale: una relazione. In realtà, ai nostri fini, dobbiamo allargare il concetto di ascolto e considerarlo non soltanto come elemento qualificante la relazione interpersonale, ma anche come capacità di ricezione di tutto ciò che valga la pena essere ascoltato. Capacità non facile, anzi, la più difficile del mondo.
Il problema dell’ascolto è infatti uno solo, ma è gigantesco: esige la sospensione delle nostre categorie di giudizio (le nostre convinzioni, come si ricorderà) e la contestuale disponibilità ad accogliere prospettive differenti senza censure preventive e prevenute. Ciò richiede una disponibilità interiore non comune e dosi massicce di fatica. Chi ascolta accantona tutto sé stesso e tutte le proprie convinzioni, per accogliere come legittimi altri punti di vista. Ciò non significa, naturalmente, condividerli e accettarli. Tutt’altro. Sospendere il giudizio, sospendendo le proprie convinzioni, consente di attivare un confronto tra ciò che è dentro di me e ciò che è fuori di me e di decidere consapevolmente, ma soltanto dopo, cosa trattenere e cosa scartare da questo confronto. Torna dunque il tema della consapevolezza, del sapere di sapere o del sapere di non sapere. L’ascolto, generando consapevolezza, genera conoscenza.
Un vecchio adagio dice che a volte anche i muri hanno orecchie. La difficoltà di saper ascoltare consiste nel fatto che a volte anche le orecchie hanno muri.
4.2 Lungimiranza
È l’arte più incompresa del mondo perché è l’anticamera delle profezie, e da sempre chi fa profezie tende a essere considerato un sapientone antipatico, destinato a restare inascoltato (e se aveva ragione dimenticato)14. Per fortuna molti esseri umani non si sono mai arresi a questa incomprensione e hanno continuato a essere lungimiranti e, dunque, profeti. Nella nostra cultura il termine “profeta” è collocato istintivamente nell’ambito religioso, ma noi vogliamo dimostrare che i profeti esistono in ogni ambito della vita, professionale, sociale, familiare, e che tutti noi, il più delle volte senza nemmeno saperlo e senza neppure rendercene conto, siamo dei profeti. Se analizziamo infatti l’etimologia greca della parola “profezia” vediamo che essa è costituita da πρό (pro: avanti) e φημί (femì: dire): dire in anticipo. Fare profezie non è essere indovini del futuro, ma saper leggere con intelligenza il presente e, mettendolo in correlazione con il passato e calando le conclusioni di questa osservazione nel contesto storico di riferimento, intuirne il futuro.
Come si vede, intendiamo per profezia un lavoro di intelligenza razionale fatto sul presente: non c’è nessuna sfera di cristallo e nessuna ispirazione soprannaturale in questo essere profeti. Tornando più prosaicamente alla nostra lungimiranza, lungimirante è chi, conoscendo il contesto di riferimento, le risorse, gli obiettivi, i rischi e le opportunità, mette saggiamente in correlazione cause ed effetti e anticipa le conseguenze che potrebbero avere certe scelte o certe altre. Essere lungimiranti è vederci lungo, saper guardare lontano: in poche professioni come quella di cui ci stiamo occupando, è quasi dato per scontato che chi se ne occupa sappia vedere lontano.
Chi progetta edifici può visualizzare il prodotto finale prima che esista, avendo il vantaggio di lavorare con materiali il cui comportamento meccanico è immutabile e quindi prevedibile; per cui, volendo ottenere un certo risultato, la sua arte profetica consisterà nel combinare nel modo corretto i materiali con cui sarà fatto l’edificio in relazione al terreno su cui sorgerà, in relazione alle sue dimensioni, alla sua forma e così via, e quel risultato si raggiungerà. Per chi progetta eventi, invece, la situazione è diversa: non ha a disposizione materiali il cui comportamento meccanico sia prevedibile, perché il materiale a disposizione è fatto di esseri umani; ha a disposizione i loro comportamenti e soprattutto le relazioni che questi esseri umani creano e creeranno tra loro. Ora, se è pur vero – facendo una battuta – che il comportamento degli esseri umani è talvolta più prevedibile di quello del cemento, è altrettanto vero che non è sempre così e che un notevole margine di indeterminatezza, se trascurato, rischia di far fallire anche l’evento meglio progettato. Qui si rivela fondamentale l’arte della lungimiranza: chi progetta eventi dovrà avere un fiuto particolare dell’essere umano e saper profetizzare anche l’imponderabilità del suo comportamento.
La lungimiranza è un’arte che si dà per scontata perché è l’arte del non dare nulla per scontato. La lungimiranza fa diventare persino petulanti, ma giustamente, nello scandagliare con minuzia tutti i possibili CSS (Cosa Succede Se), così da predisporre tutti i presìdi utili a prevenire ragionevolmente le aree imprevedibili dei comportamenti e salvaguardare le relazioni.
4.3 Pazienza
È l’arte più noiosa del mondo perché è l’arte dove è più richiesta la capacità di osservare e di apprezzare anche quei dettagli che sembrano superflui e la cui ricerca può essere percepita solo come uno spreco di tempo e di energie. È l’arte dove la lungimiranza trova il suo esito più naturale, giacché la pazienza, per sua stessa natura, si nutre soprattutto di attese, consapevole dell’esistenza di risultati che raramente si conseguono nel brevissimo termine. È anche l’arte più controversa in un contesto in cui, come abbiamo visto sopra, la velocità è l’elemento che caratterizza questa epoca. Velocità e pazienza sembrerebbero non andare d’accordo.
Parlando di eventi dobbiamo invece scontrarci con un ossimoro: gli eventi esigono una paziente velocità. È proprio in questa apparentemente incolmabile dicotomia a risiedere il valore professionale di chi si occupa di eventi. Pur essendo costretti a lavorare in un contesto veloce, convulso, spesso stressante e dai repentini cambiamenti, il valore professionale dei Manager e delle Manager degli Itinerari Culturali è dato e misurato anche dalla loro capacità di utilizzare la pazienza come strumento di lavoro capace di governare i processi rendendoli conformi al risultato che la committenza si aspetta e che è stato condiviso con chi governa l’evento.
Pazienza non ha mai un’accezione passiva, naturalmente. Non stiamo esaltando il valore della quieta inerzia in cui adagiarsi oziosamente, confidando che prima o poi qualcosa succeda. La pazienza, che per noi costituisce una competenza comportamentale di ruolo, è una caratteristica con cui, invece, si agisce nelle cose e si lavora duramente per costruire le condizioni ragionevolmente utili a condurre al risultato desiderato. La differenza è data dal modo con costruiamo queste condizioni. La competenza della pazienza indirizza l’operato professionale nella direzione della saggia analisi di ogni possibile dettaglio affinché nulla venga trascurato e nulla venga dato per scontato. Non solo: pazienza è anche occuparsi dei segnali deboli, di quelle voci sommesse che nel caos operativo fatichiamo a sentire e che molto frequentemente contengono messaggi preziosi e spesso vitali che sarebbe un errore ignorare.
La pazienza è l’arte di accorgersi dell’accadere delle cose.
4.4 Parsimonia
È l’arte più antipatica del mondo perché è quella competenza che fa diventare così abili nell’evitare lo spreco da essere scambiata per taccagneria. Quando parliamo di parsimonia, tuttavia, non vogliamo riferirci necessariamente a un particolare grado di oculatezza nell’utilizzo del denaro e dei beni economici, dote peraltro molto apprezzata e, anzi, necessaria a chi ricopre ruoli professionali giacché, in proporzione alle responsabilità affidate, è chiamato a gestire risorse economiche di proprietà altrui. Vogliamo qui estendere il concetto di parsimonia a tutto ciò che costituisce oggetto del nostro ruolo professionale. E per prima cosa non sottolineiamo solamente la sua accezione negativa, che si sostanzia nel giustissimo slogan “no allo spreco”, ma evidenziamo soprattutto la sua accezione positiva: sì alla valorizzazione delle risorse (umane, economiche, strumentali) che abbiamo o che possiamo avere.
Se ci riflettiamo, troveremo facilmente che valorizzare significa proprio non sprecare. Quindi il tema della parsimonia si collega al tema del valore. È chiaro che la gestione di un evento funziona bene quando emerge il suo valore, quando chi ha commissionato l’evento e chi ne fruisce, percepiscono entrambi il suo valore. Sviluppare la competenza della parsimonia, in questo contesto non significa imparare l’avarizia, significa prendersi cura di qualcosa che non ci appartiene, ma che viene affidato alla nostra responsabilità per distillarne il massimo valore possibile.
4.5 Vista d’aquila
Parlando di pazienza abbiamo messo in luce l’importanza di aver cura anche del dettaglio. Naturalmente è necessario evitare che la cura dei dettagli cannibalizzi tutto il resto e si trasformi in una spasmodica quanto sterile ansia che finirebbe con il paralizzare tutta l’attività. Bisogna perciò equilibrare il rischio di un eccessivo controllo dei dettagli bilanciandolo con la capacità di non perdere mai di vista l’insieme. Ogni dettaglio non deve mai vivere né essere curato come elemento a sé stante, nessun dettaglio ha un valore assoluto se non in quanto correlato, funzionale e coerente con l’insieme. La professione di chi si occupa di eventi deve nutrirsi anche di questa capacità, che paragoniamo alla vista d’aquila: l’aquila, come noto, si procura il cibo individuando il minuscolo dettaglio di una preda nelle sterminate vastità che nel suo altissimo volo tiene ineffabilmente sotto controllo.
Nell’eventistica, la competenza della vista d’aquila è in realtà la competenza di saper assicurare coerenza tra ciascun elemento, tra ciascun oggetto, appunto tra ciascun dettaglio, e l’insieme. Competenza difficile, non lo nascondiamo, perché va a toccare l’eterno dissidio, l’eterna dicotomia che affligge la stessa condizione umana: quella tra unità e molteplicità. Sarebbe assai interessante e istruttivo poter dedicare del tempo a sondare questa antica speculazione filosofica (e non solo), che ha visto tanti pensatori, a partire da Parmenide, affrontare l’ingarbugliata lotta tra unità e molteplicità, ma andremmo fuori tema. Per quanto di nostro interesse, in questa sede, vale la pena di osservare che il rapporto tra visione d’insieme e dettaglio, presenta un’interessante somiglianza con il rapporto tra unicità (che qui intendiamo come l’insieme) e molteplicità (i tanti dettagli che formano l’insieme); e che tale somiglianza viene fortunatamente in nostro soccorso sul piano pratico, consentendoci di trovare più facilmente possibili strumenti utili a governare pragmaticamente l’insieme e il dettaglio, senza perdere di vista né l’uno né l’altro.
A quanto pare, gli occhiali che meglio ci aiutano nell’avere una buona vista d’aquila si chiamano “dialettica” (15). Non vogliamo e non possiamo, come abbiamo detto, addentrarci in pur avvincentissime indagini filosofiche, ma è utile saper cogliere adeguate stille di sapere dalla saggezza degli antichi, in particolare rilevare quanto sia determinante, per questo ruolo professionale, saper dialogare e saper operare confronti rispetto ad un fermarsi di fronte ad un vocabolario modesto, a un solo punto di vista, a una sola prospettiva. Come si vede, torniamo alle considerazioni che avevamo fatto sull’ascolto, quando dicevamo che la sospensione del giudizio è una dote preziosa: torna utile proprio qui, proprio quando siamo chiamati a tenere in equilibrio il piccolo e il grande, l’uno e i tanti, il dettaglio e l’insieme.
4.C. Problem solving
È l’arte di gestire lo stress. Lo stress è una componente ineludibile di tutte le professioni, questo è innegabile, ma in questo ruolo professionale la componente “stressogena” assume dimensioni cruciali nel momento in cui (e di questi momenti ce ne sono davvero molti!) è necessario trovare velocemente soluzioni a problemi apparentemente irrisolvibili o di non codificata “via d’uscita”. Il ruolo di chi gestisce eventi non si giova, purtroppo o per fortuna, di manuali o di trattati da cui applicare una rigorosa proceduralizzazione, dove al verificarsi di certi fatti, applicando una certa sequenza di azioni, si ottiene invariabilmente un risultato certo. Qui è spesso l’imprevedibile, l’imprevisto, l’imponderabile a dover essere governato.
Quello del problem solving è un tema che in apparenza tocca la capacità creativa, cosa che può essere facilmente confusa con l’estro estemporaneo, ma che in realtà richiede solide capacità razionali. Affrontare un problema di cui non è nota la soluzione e doverla cercare in fretta ottenendo, ovviamente, il miglior risultato possibile, è una capacità che non si improvvisa. L’esperienza, la preparazione e il sangue freddo hanno un ruolo fondamentale, ma è la responsabilità a giocare un ruolo primario, non disgiunta dall’attitudine ad assumersi una buona dose di rischio. Per sua stessa natura, il problem solving non è una “scienza esatta”: nessuno è in grado di predire con certezza quale sarà il risultato conseguibile agendo in un modo o in un altro. Soltanto la confidenza nelle proprie ragionevoli certezze, supportata dalla propria preparazione, attiva quella necessaria propensione al rischio che costituisce l’elemento qualificante del problem solving. Quando ci si trova faccia a faccia con questo genere di problemi è utile assumere una forma mentis imprenditoriale: se io non fossi colui o colei che gestisce questo evento, ma fossi invece il committente, fossi cioè chi sta investendo (e rischiando) risorse economiche in questo progetto, come mi comporterei? Nel problem solving si è chiamati a sostituirsi all’imprenditore e rischiare a suo nome. Nel problem solving si sperimenta la solitudine di chi deve prendere decisioni immediate da solo.
Spesso viene infatti associata alla competenza del problem solving la competenza nota come decision making, che di solito viene trattata in modo distinto e separato: qui preferiamo considerare il processo di decision making parte integrante della competenza del problem solving, come se fossero la stessa cosa.
Capacità di analisi e di sintesi, profondità nella ricerca e capacità di ascolto costituiscono gli elementi più importanti nel processo di risoluzione dei problemi e di presa di decisioni. Un processo in realtà che applichiamo abbastanza istintivamente anche nella vita di tutti i giorni, a diversi livelli e con diverse intensità. Nel campo professionale la differenza consiste, ancora una volta, nell’acquisirne consapevolezza, e acquisendone consapevolezza, di ottenerne sicurezza nella scelta. Concludendo, come si vede, torna dunque utile ricordare che il campo di gioco professionale non è lastricato soltanto di ciò che sappiamo fare, ma di quanto siamo consapevoli di saperlo.
4.7 Storytelling
È l’arte di essere credibili. Sullo storytelling abbiamo già fatto alcune riflessioni, per cui non spenderemo troppe parole. Qui vorremmo solo analizzare brevemente per quale ragione attribuiamo il connotato della credibilità alle capacità narrative.
Non intendiamo certo asserire che, per essere credibili, bisogna saper incantare la gente con mirabolanti capacità affabulatorie o con una brillante facondia, no. Qui non c’è spazio per i ciarlatani. Ciò su cui ci interessa mirare la nostra attenzione è osservare che saper tradurre un progetto in una narrazione significa dimostrare di conoscerlo molto profondamente, di crederci altrettanto profondamente, e di averne le capacità per governarlo. Pensiamo alla differenza che provoca nella nostra percezione chi, nel parlarci di qualcosa, ce lo espone come una specie di elenco, di lista della spesa (ordinata e rigorosa quanto si vuole, ma senza anima) e chi ce lo espone invece come un racconto, una storia. Tra i due il contenuto è il medesimo: cambia il modo di presentarlo. Certamente sono competenti entrambi, ma il primo conosce il contenuto e basta, per il resto è intimamente distante dal senso del progetto: verrebbe da chiedersi se gli importa davvero qualcosa; il secondo non solo conosce il contenuto, ma dimostra anche di averlo a cuore, dimostra quindi che farà di tutto per realizzare quel progetto perché quel progetto è come se fosse suo, una sua creatura.
Ecco il motivo per cui diventa essenziale sviluppare e consolidare la competenza dello storytelling: perché in questo ruolo, ancora prima di “vendere” alla committenza quello che sapete fare, dovrete vendere alla committenza quanto ci credete. E nel ruolo di chi si occupa di eventistica conta una cosa sola: conta come so gestire gli eventi, e lo dimostro se dimostro di crederci, perché se non ci credo sarà l’evento a gestire me, se ci credo sarò io a gestire l’evento. Credere in qualcosa è l’unico modo per essere convincenti: ciò in cui credo so anche raccontarlo, ciò che so raccontare è ciò in cui credo.
5. Conclusioni
Presentare un progetto è presentare le proprie competenze. Ricordando quanto abbiamo detto sulla preponderanza che ha la relazione sul contenuto, ne deduciamo che la credibilità – e quindi il successo o l’insuccesso di una proposta progettuale – deriva in massima parte da come noi saremo stati capaci di parlarne: ricordiamoci che le nostre conoscenze tecniche e la nostra capacità di applicarle sono sempre date per scontate. Ciò che non è scontato e che ci rende credibili sono le nostre competenze, competenze che qui intendiamo nel senso lato del termine, ovvero quanto alta è la nostra voglia di competere. E se è molto alta lo si vede da come sappiamo parlarne.
Qui, il turno di gioco passa inevitabilmente a sé stessi: nessuno può procurare, sviluppare e verificare queste competenze meglio di sé stessi. È necessario leggere in forma riflessiva questi tre verbi: procurare le competenze diventa procurarsele, sviluppare le competenze diventa svilupparsele, verificare le competenze diventa verificarsele. Non è un esercizio di presuntuoso individualismo, né un modo per applicare una specie di cosmesi artificiale ai nostri limiti, ma un continuo, duro lavoro di allenamento individuale sulla propria solidità professionale.
In ogni professione bisogna amare soprattutto due cose: l’ignoranza e la stanchezza. Bisogna amare ciò che non si sa perché così abbiamo la possibilità di impararlo. E bisogna amare la stanchezza perché è il segnale più certo di non aver ancora imparato abbastanza.
Note:
1 La semplificazione qui proposta è frutto di una rielaborazione di molti studi sul comportamentismo e dintorni. Si vedano, per esempio, gli studi di Thomas (1920), di Allport (1935), di Skinner (1938), di Rosenberg e Hovland (1956) di Bem (1965), di Strack (1988) e di Rudman (2007).
2 Si vedano, per esempio, https://www.patriziamattioli.org/identita-personale-i-parte-che-cose/. P.F. Strawson, Individuals, London 1959 (trad. it. Milano 1978); B. Williams, Problems of the self, Cambridge 1973 (trad. it. Milano 1990); R. Nozick, Philosophical explanations, Oxford 1981 (trad. it. Milano 1987); D. Parfit, Reasons and persons, Oxford 1984, 19872 (trad. it. Milano 1989); S. Shoemaker, Personal identity: a materialistic account, in S. Shoemaker, R. Swinburne, Personal identity, Oxford 1984, pp. 67-132; H.W. Noonan, Personal identity, London-New York 1989; E.J. Lowe, Subjects of experience, Cambridge 1996; E. Olson, The human animal, Oxford 1997 (trad. it. Milano 1999); M. Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Milano 1998; S. Shoemaker, Self, body and coincidence, in Proceedings of the Aristotelian society, Supplementary Volume 1999, 73, pp. 287-306.
3 Questa affermazione fa parte degli assiomi della comunicazione, formulati da Paul Watzlawick, Janet H. Beavin e Don D. Jackson. Si veda, per esempio, Watzlawick, P., et al. (1967), Some Tentative Axioms of Communication. In: Watzlawick, P., et al., Eds., Pragmatics of Human Communication; A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, W. W. Norton C Co, New York, 282.
4 Si vedano, per esempio, https://isnca.org/it/comunicazione-interpersonale/. Di Giovanni P. La comunicazione. Zanichelli, Bologna; Di Nuovo S, Giovannini D., Loiero S., Risolvere i problemi. Strategie cognitive e competenze relazionali. UTET-Libreria, Torino; Gulotta G., Boi T., L’intelligenza sociale. Giuffré, Milano; Ricci C. (a cura di), L’insegnamento delle abilità sociali: il programma di Shure e Spivack. Psicologia e Scuola, 1995-1996, nn. 41-45.
5 Giustiniano I (482-565), Institutiones II.
6 Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.), Satire.
7 Qui proponiamo tre osservazioni sul concetto di competenza, da alcuni ritenuta come la “piena capacità di orientarsi in un determinato campo”:
- La competenza non è ciò che si sa, ma ciò che si sa fare con ciò che si sa” (G. Wiggins, 1993)
- La competenza è essenzialmente ciò che una persona dimostra di saper fare (anche intellettualmente) in modo efficace, in relazione ad un determinato obbiettivo, compito o attività in un determinato ambito disciplinare o professionale. Il risultato dimostrabile ed osservabile di questo comportamento competente è la prestazione o la performance. (R. Drago, 2000).
8 Si vedano, per esempio, Dagnino, G. B. (2009), Coopetition strategy: a new kind of interfirm dynamics for value creation. In Coopetition strategy (pp. 45-63). Routledge; Paul Terry Cherington, Advertising as a Business Force: A Compilation of Experience Records, Doubleday, for the Associated advertising clubs of America, 1913, p. 144; Rockwell D. Hunt, “Co-opetition”, Los Angeles Times, Nov 20, 1937, p. a4; Lawrence M. Fisher, “Preaching Love Thy Competitor”, New York Times, March 29, 1992; Minà, A., C Dagnino, G. B. (2016), In search of coopetition consensus: shaping the collective identity of a relevant strategic management community. International Journal of Technology Management, 71(1-2), 123-154; Minà, A., C Mocciaro Li Destri, A. (2009), Coopetitive Dynamics in Distribution Channel Relationships: An Analysis of the Italian Context in the Twentieth Century, in Finanza, marketing e produzione, vol. 27, n. 2.
9 Comportamento nell’Enciclopedia Treccani – Treccani. https://www.treccani.it/enciclopedia/comportamento/; Il Comportamentismo | InPsiche. https://www.inpsiche.it/storia-della-psicologia/il-comportamentismo/; Comportamentismo: Teoria della Psicologia Comportamentista – PsicoSocial.it. https://www.psicosocial.it/comportamentismo-psicologia/.
10 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, III, 1583
11 “All’interno di un sistema chiuso, in una reazione chimica la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti, anche se appare in diverse forme”, De Lavoisier, 1789
12 https://www.semanticscholar.org/author/I.-Prigogine/2070683822
13 Si vedano, per esempio, Federico Batini, Simone Giusti (a cura di), Le storie siamo noi. Gestire le scelte e costruire la propria vita con le narrazioni, Napoli, Liguori editore, 2009; Marco Paracchini, Mass Media Storytelling, KDP 2018; Claudio Cortese, L’organizzazione si racconta, Milano, Guerini, 2000; Christian Salmon, Storytelling: la fabbrica delle storie; traduzione di Giuliano Gasparri, Roma, Fazi, 2008; Barbara De Angelis, L’ascolto atto cosciente e virtù civile. Riflessioni educative, Roma, Anicia, 2013; Andrea Fontana, Manuale di Storytelling, Etas-Rizzoli, Milano 2009; Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina editore, 1995; Karin B.Evans e Dennis Metzger, Storytelling, ASTD, 2000; Corrado Petrucco e Marina De Rossi, Narrare con il digital storytelling a scuola e nelle organizzazioni, Roma, Carocci editore, 2009; Marina De Rossi e Corrado Petrucco, Le narrazioni digitali per l’educazione e la formazione, Roma, Carocci editore, 2013; Stefano Calabrese e Giorgio Grignaffini (a cura di), La Bottega delle Narrazioni, Roma, Carocci editore; Alessandro Perissinotto, Raccontare: strategie e tecniche di Storytelling, Bari, Laterza, 2020.
14 “Non fare mai profezie. Se sono sbagliate nessuno se lo dimenticherà; se sono giuste nessuno se lo ricorderà.” (Josh Billings)
15 Per Platone, che per primo ne aveva coniato la nozione, dialettica è lo stesso processo del dividere un’unità e dell’unificare il molteplice, operazioni finalizzate alla capacità di parlare e pensare (Fedro, 266b): come dirà in altri dialoghi, dialetti ca è scienza e potenza di mescolare molte cose in unità e di scioglierle dall’unità in molteplicità (Timeo 68d) al fine di pervenire alla conoscenza del vero essere (Repubblica 532b). (Tratto da M.Morini, “Uno, nessuno e centomila? Tutti e senza contraddizione” in “Storia della Filosofia”, https://ritirifilosofici.it/uno-nessuno-o-centomila-tutti-e-senza-contraddizione/)