Mentre in Italia l’attenzione della stampa nel mese di agosto è stata in gran parte focalizzata su quella che Luca Tentoni in un articolo su Mente Politica ha calcolato essere la 66’ crisi di governo della nostra storia repubblicana, a tenere banco a livello di mass media nel mondo è stato, piuttosto, il tema dell’ambiente e degli ormai sempre più repentini cambiamenti climatici. La vera crisi, ha osservato Guido Viale in un articolo rilanciato dal blog di Madrugada, non è infatti quella politica ma è la crisi ambientale.
Cambiamenti sempre più rilevanti che sembrano però non meritare la giusta attenzione da parte delle autorità politiche, non solo in Italia ma nel mondo intero. Anzi, al contrario, l’emergenza climatica sembra essere vissuta dai leader delle nazioni più potenti della Terra come una opportunità di guadagno, anziché come una minaccia collettiva come invece dovrebbe essere.
Siamo passati dall’idea positiva che la green economy possa offrire nuove opportunità di sviluppo, all’idea che nuove occasioni di crescita economica possano derivare invece proprio dagli effetti dei cambiamenti climatici. In particolare, da parte dei governi più potenti della Terra sembra essersi avviata una sorta di corsa ad una “Nuova Frontiera”, ma a rovescio; costituita cioè non più dalle scoperte scientifiche e dall’esplorazione dello spazio esterno, come aveva invece preconizzato John Fitzgerald Kennedy negli anni Sessanta del secolo scorso, un’epoca che ci appare oggi lontanissima: mentre infatti nel luglio scorso la Nasa festeggiava i cinquant’anni del primo uomo sulla Luna, la “Nuova Frontiera” sembra essere oggi più che mai tremendamente interna al nostro pianeta, costituita da nuove forme di sfruttamento economico, in particolare dell’Amazzonia e dell’Artico, la prima attraverso disboscamenti irresponsabili, il secondo in quanto – reso ormai “libero” dai ghiacciai – diventa ora accessibile per fornire nuove risorse, nuove materie prime, e quindi produrre ancor più inquinamento globale. Gli interessi degli Stati sovrani in quei territori, che singolarmente presi sembrano essere economicamente rilevanti, visti in ottica globale o universale si rivelano devastanti nelle conseguenze che producono: ciò che appare utile e redditizio dal punto di vista della sovranità nazionale, è distruttivo se visto dal punto di vista collettivo per l’umanità nel suo insieme; razionalità individuale e irrazionalità collettiva non sono mai state così fortemente contrapposte come nella vicenda che riguarda il clima: “sovranismo” e “universalismo” evidenziano qui la loro massima tensione, il più elevato grado di contrapposizione.
L’Artico è stato al centro dell’attenzione nel mese di agosto per più di un motivo: dalla velocità di scioglimento dei ghiacci, che sta ormai procedendo a ritmi esponenziali, all’offerta americana di acquistare dalla Danimarca l’intera Groenlandia per farne parte integrante del territorio statunitense, fino alla realizzazione russa della centrale nucleare galleggiante per fornire energia ai territori all’estremo nord siberiano che fino a poco tempo fa erano inospitali per l’essere umano ma che nel futuro potrebbero diventarlo di nuovo e in un altro senso, ben peggiore, come riporta l’articolo Perché brucia il circolo polare proposto dal sito internet della rivista Internazionale.
La Groenlandia, ha scritto Gwynne Dyer sempre per Internazionale, è al centro degli interessi di Trump e di Pechino; ma, ci chiediamo, dov’è in questa contesa l’Unione Europea? La Danimarca fa parte dell’UE dal 1973, eppure scopriamo che la Groenlandia è fuori dall’Unione, come sono fuori le isole Faroe che pure sono anch’esse sotto la sovranità della monarchia danese. Ma dovrebbe essere l’Unione Europea, non gli Stati Uniti o addirittura la Cina, a rivendicare il diritto geopolitico alla sovranità sulla Groenlandia: un diritto che sia parte di una più ampia politica che si ponga come obiettivo non lo sfruttamento delle risorse di quel territorio ma, al contrario, maggiori investimenti nella green economy affinché sia quella, e non altro, l’autentica “Nuova Frontiera” del XXI secolo. Al centro delle politiche dell’UE vi era peraltro, fin dall’inizio, l’idea di economia sostenibile che ora è al centro dei 17 Goals dell’Onu per Agenda 2030 ma che fu anticipata già nel 1997 dal Trattato di Amsterdam.
Come l’Artico, “liberato” dai ghiacci, diventa una “Nuova Frontiera” per lo sfruttamento economico, così territori sempre più vasti dell’Amazzonia, “liberati” dalle foreste diventerebbero sfruttabili per nuove produzioni, almeno nella logica del sovranismo brasiliano; ma la foresta amazzonica produce il 20 per cento dell’ossigeno del pianeta, è la più grande “fabbrica” di ossigeno della Terra ed è quindi vitale per la nostra stessa esistenza biologica. Ancora una volta, ciò che può apparire razionale per il singolo Stato si rivela completamente irrazionale e disastroso dal punto di vista collettivo.
Per fortuna, gli approfondimenti sulla stampa non mancano, anche se la politica fa molta fatica a recepirli; segnaliamo, fra questi, l’articolo di Stefano Liberti L’Amazzonia brucia anche per produrre la carne che mangiamo, insieme a quello di Gwynne Dyer l’Amazzonia brucia, ma non è una novità, entrambi proposti da Internazionale, e l’appello di Amnesty International per il rispetto dei diritti umani degli indigeni che vogliono difendere la foresta dagli attacchi incendiari e dalle invasioni illegali, i guardiani dell’Amazzonia come ha documentato in un video sempre il sito di Internazionale. Il portale di Vita.it propone invece nell’articolo Deforestazione: emergenza silenziosa l’esauriente dossier Caritas sulla regione panamazzonica.
Gli effetti dei cambiamenti climatici sono tali da essere visti anche dallo spazio, come ha osservato in una conferenza stampa l’astronauta italiano Parmitano dalla Stazione Spaziale Internazionale: a questo punto ciò che manca è una seria e incisiva azione politica a livello globale; con la speranza che si attivi al più presto, come ci ricorda Greta Thunberg, prima che sia davvero troppo tardi per tutti.