In un precedente articolo pubblicato alcuni mesi fa sul blog del Cds avevamo fatto un punto sulle risorse che aveva messo a disposizione all’epoca l’Unione europea per uscire dalla crisi economica generata dalla pandemia da coronavirus. Riepiloghiamo brevemente e schematicamente i numeri aggiornati, con i relativi link di approfondimento ai siti dedicati ai diversi argomenti:
• 1.850 miliardi è l’entità complessiva attuale del programma di acquisto titoli denominato PEPP e varato dalla BCE a seguito dell’emergenza Covid-19, che ha permesso agli Stati nazionali dell’eurozona di emettere titoli pubblici nazionali pagando tassi di interesse molto bassi. Questa misura è strettamente collegata, nei suoi effetti, alla sospensione del patto di stabilità che ha tolto agli Stati i limiti di disavanzo in precedenza previsti per i bilanci nazionali. Il debito pubblico italiano ha potuto così salire a 2.586 miliardi contro 2.409 miliardi nel 2019. Gli interventi della Bce sono stati fondamentali, in particolare a partire dai primi programmi di Quantitative Easing di Mario Draghi; basti pensare che nel 2000 l’Italia aveva un debito pubblico sul Pil del 105,1% con un’incidenza di spesa per interessi sul debito in rapporto al Pil del 6,1% mentre nel 2019 (quindi prima della pandemia) il debito pubblico era salito al 134,7% ma gli interessi pagati sul debito erano diminuiti al 3,4% (Banca d’Italia – Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione europea). Nei soli primi nove mesi del 2020 gli acquisti di titoli di Stato italiani sono stati pari a 142 miliardi.
• 100 miliardi è l’ammontare delle risorse finanziarie previste dalla Commissione europea per il programma SURE, cioè la cassa integrazione europea, che si concretizza attraverso l’emissione di obbligazioni sociali, primo caso di emissione di debito pubblico europeo il cui collocamento ha avuto riscontri molto positivi. La quota che può essere utilizzata dall’Italia ammonta a 29 miliardi complessivi.
• 540 miliardi sono prestiti messi a disposizione degli Stati dell’eurozona dal Meccanismo Europeo di Stabilità, il MES, che è un’organizzazione intergovernativa europea nata nel 2012, in piena crisi finanziaria, per ristrutturare debiti pubblici di Stati in difficoltà o ricapitalizzare banche nell’area euro. Per far fronte all’emergenza sanitaria, è stato previsto un MES sanitario, che esclude le condizionalità che sono previste invece nell’ipotesi di interventi di salvataggio, e che gode di condizioni particolarmente favorevoli (prestiti rimborsabili in 7 o 10 anni con tassi da -0,07% a +0,08%). Le somme a disposizione degli Stati sono calcolate in base al Pil e per l’Italia ammontano a circa 35 miliardi.
• 240 miliardi sono prestiti e garanzie offerte dalla BEI, la Banca Europea degli Investimenti, che si finanzia emettendo Eurobond per finanziare in particolare progetti economici e dare sostegno finanziario delle imprese. Il nostro Paese è tra i maggiori beneficiari dei prestiti Bei: nel decennio 2008-2018 sono stati oltre cento miliardi i finanziamenti erogati alle imprese italiane.
• 1.824,3 miliardi di euro è il programma spalmato su più anni denominato Piano per la ripresa dell’Europa o Recovery Plan Europe, costituito per 750 miliardi dall’ammontare delle risorse messe a disposizione degli Stati dal programma temporaneo denominato Next Generation EU che si somma ai 1.074 miliardi del Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, che è il bilancio pluriennale (su 7 anni) dell’Unione. È il programma più vasto di intervento per uscire dalla crisi economica generata dalla pandemia e nel contempo orientare le economie europee verso una logica di sviluppo sostenibile. Next Generation EU è un pacchetto di interventi finanziari costituito da 390 miliardi di sovvenzioni e 360 miliardi di prestiti che gli Stati restituiranno con rimborsi le cui scadenze saranno diverse e potranno arrivare anche fino al 2058; dei 750 miliardi complessivi, l’Italia potrà beneficiare, entro il 2023, dell’ammontare più alto e cioè circa 209 miliardi di cui 127,4 costituiti da prestiti e 81,4 da sussidi, cui bisogna aggiungere ulteriori 13 miliardi del programma ReactEU di 47,5 miliardi che è parte integrante del programma Next Generation EU. Il programma verrà finanziato dalla Commissione europea in parte emettendo debito pubblico europeo, in parte con contributi a carico dei bilanci degli Stati (il contributo a nostro carico ammonterà a 40,6 miliardi).
Si tratta di interventi molto articolati, ma chiari negli obiettivi da conseguire: anzitutto, far uscire l’Unione europea dalla crisi pandemica e da quella economica che ne è derivata, e nel contempo orientare la crescita stessa verso obiettivi di sviluppo sostenibile. Si tratta dell’impegno che già aveva preso la nuova Commissione europea presieduta per la prima volta da una donna, Ursula von der Leyen , e meglio noto come Green Deal Europeo. Per quanto riguarda in particolare Next Generation EU, ciascun governo nazionale dovrà presentare alla Commissione, entro aprile, un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, PNRR, che andrà approvato e quindi ratificato anche dal Consiglio degli Stati. È di fondamentale importanza, per l’Italia, non solo presentare il piano e accedere ai finanziamenti, ma anche realizzare compiutamente tutti gli interventi necessari per il rilancio del Paese. Per noi, infatti, Next Generation EU è la versione odierna del Piano Marshall che consentì all’Italia di rinascere dalle macerie della seconda guerra mondiale e di avviare quel miracolo economico che l’ha fatta diventare uno dei paesi più sviluppati del mondo e la seconda economia manifatturiera d’Europa. Ma la riuscita di Next Generation EU è fondamentale non solo per il futuro dell’Italia, ma anche per quello dell’Unione, in quanto la sua riuscita potrebbe preludere a nuovi futuri programmi di natura analoga; si veda, a tale proposito, l’intervista a Paolo Gentiloni al Festival di Internazionale.
Gli interventi dell’Ue sono quindi numerosi, e di entità rilevanti; di recente, per esempio, la strategia comune sui vaccini ha reso possibile un’azione comune a livello europeo. Sono però ancora molti i passaggi necessari per giungere ad un’Unione compiuta, che non può che assumere le forme di un’Europa federale, qualcosa di profondamente diverso sia dal super-Stato centralizzato che dall’attuale sommatoria di Stati indipendenti. L’Ue attuale infatti non ha una politica estera comune, non ha una difesa comune, non ha un fisco comune anche se ha un bilancio comune europeo, che però è molto piccolo rispetto ai bilanci nazionali: basti considerare che i 1.074 miliardi del “Quadro Finanziario Pluriennale” vanno spalmati su un periodo di ben sette anni (2021-2027) ed incidono appena per l’1% sul Pil dell’Unione, quando il bilancio consolidato dello Stato italiano, da solo, supera ampiamente gli 800 miliardi di euro ogni anno ed incide per oltre il 48% sul Pil complessivo del Paese. In altre parole, se l’Unione europea potesse avere anche solo un bilancio delle dimensioni di quello italiano, potrebbe fare moltissime cose in più rispetto a quello che sta facendo ora. In realtà, però, l’Unione europea resta un sistema confederale o addirittura soltanto intergovernativo, dove a governare, attraverso il Consiglio, sono in ultima istanza i 27 Stati nazionali, ciascuno con diritto di veto. È, cioè, un sistema politico molto “sovranista”, dove la sovranità non è in alto, in capo all’Unione, ma in capo ai suoi componenti costitutivi che sono i 27 Stati i quali decidono ogni cosa in una entità geografica, quella europea, che a mio avviso sarebbe di gran lunga meglio rappresentata dalle 300 regioni che la compongono. L’Unione ha un Parlamento eletto democraticamente dai cittadini europei (unica istituzione democratica dell’Ue) che può fare risoluzioni, cioè raccomandazioni, proposte ma non ha poteri legislativi, ed una Commissione che ne dovrebbe essere il governo ma che deve continuamente mediare la propria azione con le decisioni degli Stati, con esiti di compromesso e tempi decisionali lunghi (si veda la cronistoria dell’ultimo bilancio a lungo termine dell’Ue); ha, infine, una Banca centrale che sta operando molto bene, ma che rappresenta 19 paesi su 27, con un’Europa che è spaccata lungo diverse direttrici: eurozona e non, paesi nordici e paesi “frugali”, aree metropolitane ed aree interne, democrazie e leader illiberali, eccetera, eccetera. La prossima Conferenza sul Futuro dell’Europa dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) discutere i nuovi assetti istituzionali dell’Europa del futuro, di un’Unione che troverà un mondo nuovo in cui molto probabilmente sarà la Cina la prima potenza economica del pianeta e dove gli Stati Uniti d’America stanno perdendo colpi mettendo così a rischio l’intera stabilità planetaria su cui si fonda la nostra stessa esistenza, non solo economica e materiale, ma anche la nostra libertà e, letteralmente, la nostra stessa vita. Un mondo che sarà sempre più difficile da governare, perché sempre più ostaggio di autoritarismi e populismi di ogni genere, con troppi paesi dotati di armi nucleari e sempre più segnato dai cambiamenti climatici di cui anche questa pandemia non è che una conseguenza. Di fronte a questi scenari avversi abbiamo bisogno, oggi più che mai, di un’Europa forte, unita e capace di affrontare le grandi sfide globali a cui nessun governo italiano, tedesco o francese riuscirà mai a dare risposte da solo. Una visione, quella europea, che non potrà essere solo continentale o di mercato comune, ma planetaria e politica in senso ampio, all’insegna dei valori espressi da Agenda 2030 e dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani, due progetti che restano ancora largamente incompiuti.