La Fondazione Luigi Einaudi sta facendo un interessante confronto sull’andamento delle vaccinazioni nel nostro Paese rispetto alla Germania; la rilevazione statistica si chiama #quantivaccini #covid ed è un work in progress, i cui dati ci auguriamo saranno via via migliori in quanto la partenza, in Italia, si sta preannunciando ad “andamento lento”. La questione dei vaccini è fondamentale perché è la via di uscita dalla pandemia e quindi dalla crisi, non solo sanitaria ma anche e soprattutto economica che sta aggredendo buona parte del mondo. In un libro recente, I Cantieri della Storia, Federico Rampini ha osservato come subito dopo la fine dell’impero romano l’Europa precipitò nel Medioevo anche a causa di una epidemia, la “peste giustinianea”, che durò due secoli e portò al crollo demografico di intere regioni, allo spopolamento delle città, alla desertificazione dei territori, “una catastrofe sanitaria di proporzioni bibliche, spalmata su un periodo lunghissimo; con i segni inconfondibili di un cambiamento climatico” (pag.25).
Il virus SARS-CoV-2 non ha per fortuna le caratteristiche della peste giustinianea, ma è un virus che muta, come tutti i virus, e se le recenti mutazioni hanno causato una maggiore contagiosità e non una maggiore letalità, non possiamo esser certi che nel futuro anche ravvicinato nuove mutazioni non possano andare in una direzione a noi umani avversa. Il virus va perciò fermato, e subito, e i vaccini, checché ne dicano i no-vax, sono una soluzione e, anzi, sono la soluzione alternativa al lockdown, sono cioè l’unica alternativa alla strategia del “farsi legare”, che si è rivelata molto efficace nel contrastare la crisi sanitaria ma che è devastante dal punto di vista economico. Ricordiamoci che la Grande Depressione degli anni Trenta fu preceduta, un decennio prima, da una grande epidemia di tipo influenzale, la “Spagnola”, che durò alcuni anni e produsse oltre dieci milioni di morti nel mondo. Noi oggi non possiamo permetterci anni di pandemia, e non ce lo possiamo permettere in primo luogo dal punto di vista economico perché le sofferenze, con o senza lockdown, sarebbero comunque devastanti. Ecco perché i vaccini servono, e servono subito.
In un recente articolo sul blog di Madrugada, Andrea Gandini ha messo in evidenza gli intrecci fra le multinazionali farmaceutiche e la grande finanza internazionale: grazie anche a questi intrecci, bisogna dirlo, gli scienziati sono riusciti a produrre un vaccino contro il Covid-19 in un anno; un risultato che è straordinario, impensabile fino a poco tempo fa, e alla luce del quale non possiamo che accogliere con favore, almeno in questo caso, la tanto deprecata teoria machiavellica secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Il fine, qui, ha certamente giustificato i mezzi. La nuova grande globalizzazione, che dopo il crollo del Muro di Berlino e gli Accordi di Doha è stata all’origine di una liberalizzazione economica incontrollata e senza precedenti su scala planetaria, ha certamente prodotto dei guasti: il “finanzcapitalismo”, come ha lo ha descritto a suo tempo Luciano Gallino, è stato all’origine della grande crisi economico-finanziaria che dal 2007 per diversi anni ha devastato le economie di mezzo mondo. Ma, appunto, ha devastato economie di mezzo mondo, e cioè le più sviluppate; nel mentre alcuni Stati europei soffrivano per le crisi dei loro debiti, acuite da politiche di austerità che si sono poi rivelate del tutto sbagliate, nel resto del pianeta la povertà è diminuita in modo considerevole: nel 2015, osserva il Rapporto ASviS 2019, ancora il 10% della popolazione mondiale viveva in povertà estrema, pari a ben 736 milioni di persone; ma nel 2010 questa percentuale era del 16%, e nel 1990 del 36%. Qualcosa deve pur essere successo in questi trent’anni, ma non sono state le politiche illuminate degli Stati a ridurre la miseria nel mondo, è stata la nuova globalizzazione.
Nel periodo della crisi economico-finanziaria si è poi sviluppata anche una nuova economia, immateriale e digitale, che ha fatto emergere i colossi del web che fino a poco tempo prima neppure esistevano; come scrive Patrizio Bianchi, nel libro 4.0 La nuova rivoluzione industriale: “Durante gli anni della crisi è emersa una nuova economia, subito globale, basata sull’interconnessione continua – che abbiamo chiamato hyperconnection – fra persone, imprese, istituzioni, che supera di molto il sistema già ampio delle telecomunicazioni, le quali restano invece regolate a livello nazionale” (pag.48). Un mondo che è diventato globale ma con la politica che è rimasta confinata ai vecchi Stati nazionali di matrice vestfaliana; una politica sovranista in un mondo globalizzato: questo è il vero grande problema della nostra epoca.
Il finanzcapitalismo invece non è in sé il problema: può essere un nemico da combattere o al contrario una risorsa fondamentale per contribuire in modo considerevole allo sviluppo futuro dell’intera umanità; è come l’energia atomica, che può essere utilizzata per costruire bombe e distruggere l’intera civiltà umana, oppure applicata ad usi pacifici e consentire, per esempio, la futura esplorazione del cosmo. Il discrimine non è il capitalismo finanziario, o l’energia atomica, ma la politica, che deve essere in grado non di proibire ma di regolare e di indirizzare alla luce dei buoni principi che tutti più o meno conosciamo, a partire dalla sostenibilità ambientale (Agenda 2030) e da quei principi fondamentali, libertà, uguaglianza e fratellanza che costituiscono ancora oggi il grande progetto incompiuto dell’89 (non quello del 1989, bensì quello del 1789, siamo rimasti indietro…).
I vaccini contro il coronavirus non sono però solo un prodotto della globalizzazione finanziaria, sono anche un prodotto della globalizzazione scientifica, che ha fatto sì che aziende e centri di ricerca sparsi nel mondo abbiano costituito reti e coordinato i loro sforzi per giungere a questo risultato, che è comune e che è patrimonio dell’umanità intera. Uno sforzo che è stato collettivo e non attribuibile al singolo scienziato, come accadeva in passato; anche qui il confronto con l’inizio dell’era atomica è centrale: furono gli Stati Uniti a costruire la prima bomba, ma con le sole competenze degli scienziati americani non sarebbero andati da nessuna parte se non ci fosse stato un numero considerevole di scienziati, ebrei e non solo, che si trasferirono lì per sfuggire al nazismo. Alla fine della seconda guerra mondiale, i timori americani che Hitler potesse arrivare per primo a costruirla si rivelarono infondati perché i tedeschi, col loro delirio di purezza razziale, avevano perso le risorse umane in grado di portare avanti un progetto del genere. La grande globalizzazione che stiamo vivendo può consentire al mondo intero enormi progressi, se la politica sarà in grado di regolarla e indirizzarla nel modo giusto, ma non lo può fare restando dentro angusti confini nazionali. Se le logiche collettive fossero state oggi quelle auspicate dai sovranisti, il vaccino sarebbe ancora molto lontano da venire; e i talebani dell’antiglobalizzazione ricordino la storia del passato, a partire da quella della Cina di Mao descritta molto bene nell’ultimo articolo di Leonardo Bet sul blog del Cds, Il grande balzo in avanti: un’ideologia sbagliata, portata alle estreme conseguenze, causò in Cina in quell’epoca decine di milioni di morti per fame, la più grande carestia del Novecento. Numeri impressionanti, alla luce dei quali non possiamo permettere che i moderni talebani abbiano il sopravvento, forti di sistemi di comunicazione che, lungi dal limitare la libertà di parola come qualcuno sostiene, lasciano invece porte spalancate alle fake-news più fantasiose e alle più impressionanti superstizioni, degne di un nuovo Medioevo e capaci solo di produrre danni. La buona politica si valuta dalle conseguenze che produce: idee sbagliate, tradotte in linee politiche, possono produrre effetti devastanti. Gli esempi, nel secolo scorso, non mancano, basta leggere Hannah Arendt.
Quello che questa esperienza ci deve insegnare, piuttosto, è che la potenza di fuoco del finanzcapitalismo e della nuova globalizzazione dovrebbe essere utilizzata ed orientata dalla politica verso i più importanti traguardi collettivi: in campo sanitario, per esempio, gli sforzi che sono stati compiuti per realizzare vaccini in tempi rapidi dovrebbero essere replicati, una volta terminata questa emergenza, anche per combattere gli altri mali che affliggono l’umanità, in particolare il cancro e le malattie degenerative. Questa crisi ci ha insegnato, prima di tutto, che le risorse finanziarie non sono un problema, e che compito della politica è indirizzarle nella direzione giusta, garantendo insieme equità ed efficienza.
È quindi surreale, in questo contesto, la discussione sull’obbligatorietà del vaccino, soprattutto se non siamo ancora in grado di vaccinare neppure coloro che lo chiedono; il confronto fra Italia e Germania che sta proponendo la Fondazione Einaudi è perciò utilissimo, perché serve a farci capire se il nostro secchio è bucato oppure no, per dirla con Arthur M. Okun. Utile quindi il confronto fra Italia e Germania sull’andamento delle vaccinazioni, che per rendere ancora meglio la situazione potrebbe essere accompagnato da altri confronti tra regioni o aree territoriali fra loro simili, in Europa e nel mondo; come potrebbe essere, ad esempio, un confronto sull’andamento delle future vaccinazioni in Lombardia da una parte, e in Israele dall’altra: la Lombardia conta infatti dieci milioni di abitanti su una superficie di circa 24 mila kmq, Israele ha una popolazione ed una superficie che sono di poco inferiori e, come noto, ha in corso una campagna di vaccinazioni “da record” (pur con tutte le polemiche sulle discriminazioni territoriali). Laddove il contrasto appaia stridente, occorre individuarne le cause e cercare di risolverle; anzitutto, sistemando i buchi nel secchio. Vi è infatti un’altra pandemia che incombe sull’Italia, che si manifesta con la sindrome del “secchio bucato” e che non riguarda certo solo le vaccinazioni. Un “secchio bucato” che non ha colore politico, è bipartisan, perché lo troviamo dentro le principali amministrazioni pubbliche del Paese; ma per chiudere i tanti buchi occorre un grande impegno, organizzativo, finanziario e non solo: Giuseppe De Rita, in un recente convegno online di Mondoperaio, ha suggerito di non disperdere le risorse del Recovery Fund in una miriade di progetti, ma di concentrare il “fuoco finanziario” su alcuni (pochi) apparati amministrativi dello Stato per cambiarli completamente; e De Rita cita in primis la sanità e la scuola, anche se ne potremmo individuare facilmente altri. Ma è la scuola, in particolare, il settore da cui parte tutto il resto: dalla qualità della classe politica alle capacità di innovazione nel mondo economico e non solo, tutto parte dalla formazione e dalla scuola; una buona scuola è anche la risposta migliore ad un mondo inflazionato da fake news, illusionisti e talebani di ogni genere. E sarà dalla capacità di riforma della pubblica amministrazione, a partire proprio da questo settore, che si capirà se l’Italia sarà in grado di uscire dal tunnel in cui si trovava già da prima della pandemia, e come ne uscirà.