Il picco massimo di malati in terapia intensiva è stata raggiunto il 3 aprile con 4.069 persone e poi è declinato col lockdown fino a poche decine in estate. Il problema sembrava fosse (in aprile) avere più posti letto in terapia intensiva al fine di formare una “diga” per far fronte alla “marea” dei malati Covid (eventualmente in autunno). Nelle settimane successive si sono costruiti reparti “Covid” di terapia intensiva in fretta e furia (quello di Milano è costato 30 milioni di euro) perché sembrava fosse quella la soluzione: avere più posti letto attrezzati. In estate con meno di 200 malati in terapia intensiva la comunicazione pubblica era improntata ad una certa tranquillità perché in caso di seconda ondata ci sarebbero stati almeno 8mila posti in terapia intensiva. Ora si scopre invece che il problema principale non è quello dei posti letto (anche qui solo in parte creati, pare 7.092), ma del personale sanitario che manca (circa 4mila medici solo nelle terapie intensive), nonostante siano assunti di recente 30mila unità di personale sanitario a tempo determinato per far fronte alle maggiori carenze. Ma il fatto che, se i malati sono solo più del 30% di questi 7.092 posti letto, il sistema sanitario entra in stress, significa che c’è una carenza enorme di personale.
A parte il fatto che è da maggio che si è scoperto che la migliore strategia di cura non era lasciare i malati a casa senza cure, aspettare che si aggravassero e poi curarli all’ospedale nei reparti di terapia intensiva (che era molto poco efficace, per non dire nulla), in quanto le cure più efficaci sono quelle effettuate subito e a casa con farmaci tradizionali, e quindi l’aspetto strategico e organizzativo non era tanto potenziare i posti letto in terapia intensiva ma implementare le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) che intervengono a casa rapidamente con cure appropriate. Purtroppo ciò non è stato fatto se non in minima parte e non si capisce come mai un parametro così strategico non sia entrato nei ben 21 parametri per valutare le Regioni che sarebbero state così stimolate anche dall’”alto”.
E’ vero però che sia per le Usca che per le terapie intensive il problema chiave è trovare personale sanitario aggiuntivo. Solo ora (a novembre) ci si accorge di questo problema (incredibilmente) e c’è chi (Veneto) vorrebbe ricorrere ai veterinari per fare i tamponi (con rimostranze dei veterinari) e chi (Emilia-R.) a medici di altre specialità, anche qui con forti resistenze per non finire in reparti Covid “pericolosi”. Il Governo propone ora l’assunzione di 100 militari (30 medici e 70 infermieri per concorso) e intanto arriva qualche medico cubano (a Torino) e cinese (a Vercelli), facendoci vedere un film già visto.
Non si capisce perché non si assumono in modo significativo (20-30mila anche a tempo determinato) giovani specializzandi ed anche neo laureati in medicina e scienze infermieristiche per collocarli nelle posizioni più di base delle mansioni sanitarie, in modo da “liberare” i colleghi in posizioni più avanzate e da disporre così, dopo una fase di training, di migliaia di lavoratori aggiuntivi per far fronte alla “marea”. Sono 12mila i giovani medici che non sono stati presi dalle scuole di specializzazione e che quindi potrebbero essere utilizzati per l’emergenza e finanziati col Mes o Next Generation oggi (non domani o a fine 2021) che ne abbiamo bisogno in modo drammatico.
Infatti, i neo assunti che vengono inseriti nell’organizzazione del lavoro sanitario, contribuiscono alla prontezza di servizio (dai call center, ai tamponi, alle attività di base,…), liberando i senior da attività routinarie. Le assunzioni potrebbero essere a tempo determinato (es. 12 mesi), con crediti formativi per chi è all’ultimo anno di studio e capaci così di coprire pro tempore posti in organico; l’obiettivo non è solo far fronte alla “marea” dei malati Covid, ma sostenere l’occupabilità dei giovani attraverso un primo, buon ingresso al lavoro.
Le imprese sanitarie potrebbero poi essere interessate a modificare il rapporto di lavoro degli anziani (evitando un precoce pensionamento) verso attività part-time, soprattutto di supporto a colleghi meno esperti e alla formazione dei giovani neo assunti e gli stessi anziani potrebbero trovare questa proposta conveniente: pur lavorando part-time potrebbero mantenere un reddito consistente, integrando lo stipendio ridotto dell’azienda con la quota relativa della pensione accumulata.
Insomma un’organizzazione “speciale” (per tempi di emergenza) davvero capace di far fronte all’ondata dei malati Covid e di aumentare nel contempo l’occupazione giovanile. Se siamo in “stato di emergenza” non si vede perché misure coraggiose ed efficaci di questo tipo non si possono prendere. “Aprire e rilanciare” è più difficile che “chiudere e ristorare”, ma è questo il compito di chi guida il Paese. Come spesso accade in Italia, siamo di fronte a gravi carenze organizzative che trasformano quello che sarebbe un fenomeno grave ma affrontabile in una emergenza sanitaria che travolge così l’economia, la scuola, la vita e il lavoro di milioni di cittadini.