Proponiamo la monografia completa su GIOVANI E LAVORO, pubblicata nell’Annuario Socio-Economico Ferrarese 2020. Per scaricale la versione in PDF, cliccare qui.
GIOVANI E LAVORO. ANALISI E PROPOSTE PER LA TRANSIZIONE DALLO STUDIO AL LAVORO
L’intento di questa monografia dedicata al lavoro dei giovani è quello di raccogliere contributi di analisi e proposte per integrare quanto fin qui sperimentato ed elaborato in quella che ormai viene definita come “l’esperienza ferrarese” nei percorsi di transizione studio lavoro.
Allo scopo di agevolare questa raccolta, si è cercato di ridurre la complessità dell’argomento circoscrivendolo all’intero di tre campi distinti: le problematiche dell’offerta di lavoro dei giovani, l’analisi della domanda di lavoro in cui quell’offerta potrebbe trovare spazio occupazionale, i contenuti di politica economica di sostegno dell’incontro tra quell’offerta e quella domanda.
L’articolazione di ciascun campo in temi ritenuti prioritari dovrebbe, nell’intento dei redattori della proposta, concentrare il contributo di chi interviene e la diffusione e fruizione dei relativi suggerimenti. Il presente elaborato comprende:
– una “introduzione al tema generale” oggetto della monografia, contestualizzato alla particolare fase della ripresa economica post pandemia;
– una sintesi di “studio di caso” dell’esperienza ferrarese, con particolare attenzione alla sperimentazione svolta e in corso presso l’Università (il cosiddetto “Programma PIL di Unife”) e al vasto campo di osservazioni e applicazioni pratiche anche consolidate, rese disponibili dai risultati sperimentali successivamente accumulati e confrontati con la partecipazione a programmi di ricerca a livello Nazionale ed Europeo;
– uno “schema dell’articolazione dei temi”, presentato ciascuno con sintetiche e approssimative “citazioni” (formalmente anonime, alla maniera delle indagini Delphi) seguite da brevi sintesi o “spunti” per approfondimenti mirati, nella logica di allargare il campo (qualità e numero) dei suggerimenti proposti oltre che consolidare quelli ritenuti più condivisibili e realizzabili.[1]
INTRODUZIONE
UN LAVORO SOSTENIBILE PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILE. Articolo di Andrea Gandini e Gaetano Sateriale
E’ stato affermato da più parti che l’Italia ha un’occasione irrepetibile nei prossimi mesi per rilanciarsi come Paese, grazie soprattutto alle imponenti risorse provenienti dall’Europa.
Noi crediamo – per le sperimentazioni e pratiche consolidate e condotte anche nel nostro territorio negli ultimi decenni – che la “leva” fondamentale per tale rilancio sia quella di inserire i giovani al lavoro con modalità innovative in grado di utilizzare al massimo le potenzialità di crescita delle imprese e l’interesse allo sviluppo e alla valorizzazione del lavoro da parte dei giovani stessi.
Oggi, il lavoro che c’è va difeso e tutelato, ma bisogna creare anche lavoro ex novo, con politiche economiche a ciò finalizzate. Il lavoro non può essere un effetto residuale dei provvedimenti economici, ma deve essere la finalità primaria. Altrimenti la ripresa non farà regredire la disuguaglianza sociale. Non è accettabile una ripresa socio – economica che continui a disperdere le competenze dei giovani e non impieghi più donne.
I progetti andranno misurati sulla base di quanto lavoro si genera, che è il primo indicatore di sviluppo sostenibile. Il nuovo lavoro deriva dalle nuove attività che si generano nelle imprese esistenti e nelle nuove imprese private e pubbliche che nasceranno. Un conto sono i necessari provvedimenti di emergenza che “ristorano” le produzioni in crisi, un conto lo sviluppo che crea nuove produzioni e servizi.
Il Governo individuerà certo alcuni settori (sanità, scuole, infrastrutture ,…) ma l’opportunità deve essere data a tutto il tessuto imprenditoriale dalla cui abilità e responsabilità sociale non si può prescindere.
Laddove, oltre alla disponibilità dei necessari ammortizzatori sociali, sono stati sperimentati nuovi percorsi di transizione dallo studio al lavoro a forte contenuto formativo, con una stretta integrazione tra i nuovi inserimenti e le uscite degli anziani con trasferimento di competenze senior-junior e con il supporto di una gestione funzionale degli orari di lavoro in termini di durata individuale (redistribuzione del monte ore complessivo tra gli occupati) e di modalità di partecipazione individuale (part time degli anziani in uscita, recupero di collaborazioni esterne), non solo si sono aperti spazi di lavoro per i giovani ma si è creato ulteriore lavoro per tutti, in un contesto di innovazione nelle imprese e per il Paese.
Toccherà comunque a sindacati e imprese, e alle loro rappresentanze e titolarità aziendali, decidere le condizioni contrattuali dei nuovi lavori e le modalità attuative (efficienti ed eque) delle organizzazioni del lavoro nelle specifiche situazioni aziendali.
Tra le tante combinazioni che potranno essere proposte e implementate, a noi preme insistere su di un segmento in particolare che può favorire la creazione di quell’ “ambiente completo” di strumenti e procedure che abbiamo evocato, essenziale almeno nella fase di ripartenza quando più sentita è l’esigenza di sostenere la domanda di lavoro nelle aziende esistenti: accompagnare i nuovi ingressi con part time in uscita. Part time sostenuti economicamente, in cambio di attività formativa rivolta ai nuovi entranti.
Quindi, non giovani contro vecchi (o viceversa) ma competenze che vengono trasferite dai più esperti ai meno esperti. Ci sono stati in passato esempi di questo tipo in alcuni processi di riorganizzazione sia di imprese private che di enti pubblici. E hanno funzionato positivamente valorizzando e stabilizzando il nuovo lavoro.
La vita si allunga e migliori condizioni di salute consentono di lavorare per più anni se il peso del lavoro (l’orario, la durata) negli ultimi anni si riduce rendendo la qualità sia della vita che del lavoro migliore.
D’altra parte, gli anziani oltre l’età di lavoro crescono di numero, e cresce nel tempo la loro fragilità e necessitano di maggiore aiuto. A partire dai loro bisogni e delle loro famiglie va trasformato il Welfare della salute e dell’assistenza. Gli anziani rappresentano un campo di investimento per l’innovazione, su cui l’Italia domani (in un mondo ricco che invecchia) può mettere a punto e condividere con altri Paesi metodologie, tecnologie, servizi e nuova qualità delle professioni anche in tale campo.
Così dovrà essere per le nuove infrastrutture (stradali, ferroviarie, telematiche), che dovranno tener conto della rigenerazione non solo delle città ma di un territorio sempre più polarizzato che necessita di riqualificare le periferie e recuperare i borghi, i centri minori e le aree interne. Non è solo necessario mobilitare gli ingegneri (dei trasporti, delle strade, delle comunicazioni) ma anche architetti, urbanisti, sociologi e antropologi per ridisegnare le nostre città e il territorio in forma più inclusiva.
Lo sviluppo sostenibile c’è se si basa sul “lavoro sostenibile”. Difficile immaginare che la struttura produttiva e dei servizi che c’era prima della crisi diventi automaticamente più sostenibile (ambientalmente, socialmente, economicamente) se non si impiegano nuove risorse, nuove competenze, nuove sensibilità, nuove culture. In un titolo: occorre un “Piano del lavoro sostenibile” se si vuole creare uno sviluppo sostenibile.
In questo Piano, comunque, non può non rientrare la questione dell’offerta di lavoro (spesso giovanile) immigrata, per la quale il problema non è se e quale accoglienza ma quale integrazione garantire ad un flusso di arrivi che deve essere programmato e accompagnato attraverso “scuola e lavoro”: gli unici veicoli, già consolidati nell’esperienza ormai di secoli, per una vera cittadinanza. Esperienza, inoltre, che ha evidenziato come il contributo allo sviluppo di certe lavorazioni venga spesso favorito da un mix di lavoro straniero (non qualificato) e di lavoro locale (specializzato) che ne assicura le condizioni per l’apprendimento, la formazione e lo sviluppo delle competenze.
UNO STUDIO DI CASO
I PERCORSI DI INSERIMENTO LAVORATIVO PIL DI FERRARA. UNA SPERIMENTAZIONE DI FABBRICA, TRASFERITA E SVILUPPATA ALL’UNIVERSITÀ
Alcune delle considerazioni e delle proposte richiamate nell’Introduzione a questa monografia sono frutto di una ampia e prolungata sperimentazione su programmi regionali e ministeriali sviluppatasi nel territorio ferrarese che ha coinvolto due importanti “istituzioni” locali: l’insediamento Petrolchimico, uno dei primi costruiti in Europa e con il suo famoso Centro Ricerche “Giulio Natta”, e l’Università, anch’essa di origini e tradizioni di prestigio tali da conferire a Ferrara le caratteristiche di “città universitaria”, in cui si è avuta l’opportunità di sperimentare modalità organizzative anche originali nei percorsi di formazione e lavoro, anche in progetti in collaborazione particolarmente significativi.
Di seguito viene riportata una sintesi degli obiettivi e dei risultati di quelle sperimentazioni.
1. Il Progetto PIL dell’Università di Ferrara
Il PIL è un percorso per l’inserimento lavorativo che l’Università di Ferrara svolge ormai da 20 anni a favore dei propri studenti. Promosso come progetto sperimentale all’interno della neonata Facoltà di Economia, è diventato un percorso strutturale dell’intero Ateneo, rivolto a tutti gli studenti interessati a partecipare.
Il “modello base” della sperimentazione è rappresentato dal “corso PIL annuale”, aperto ai laureandi di ogni corso di studi attivato presso l’Ateneo, che costituisce di fatto “l’impianto pilota” per le verifiche di contesto e la progressiva innovazione del modello.
La sperimentazione PIL, nella sua forma corsuale, comprende le diverse misure di un percorso esteso dallo studio al lavoro: dal reclutamento e orientamento dei candidati (studenti e imprese), alla formazione d’aula (lezioni specifiche, esercitazioni e seminari), alla fase di selezione e allocazione in ambito lavorativo (stage, tirocini, lavoro contrattualizzato). Per ciascuna fase sono previsti crediti formativi a valere sui piani di studio dei corsi di provenienza dei partecipanti.
Un “modulo” annuale del progetto PIL nella modalità “standard” coinvolge mediamente 120 – 150 studenti nelle fasi iniziali (dalle pre-iscrizioni alle attività d’aula), la gran parte dei quali completa il percorso fino all’inserimento in ambito lavorativo. La partecipazione delle aziende avviene “per chiamata”, attraverso la definizione di un data base di circa 500 unità (con circa un 30% di aziende “fidelizzate”), progressivamente aggiornato, tra le quali vengono individuate – con un procedimento di “mappatura” personalizzato – quelle interessate e impegnate a mettere a disposizione posizioni di lavoro per la durata di 12 mesi.
L’allocazione degli studenti nei posti di lavoro avviene, al termine della fase formativa d’aula del PIL, attraverso uno specifico percorso comprendente seminari di presentazione di ogni azienda (e delle relative posizioni lavorative proposte), candidature degli studenti, colloqui aziendali per tutti i candidati e definizione delle “graduatorie di posto” per le candidature idonee, scelta dell’azienda e del posto di lavoro da parte degli studenti in base alla posizione di ciascuno nelle diverse graduatorie in cui è riuscito ad entrare.
2. Dal Progetto CAT nella grande Fabbrica al Programma PIL all’Università: i caposaldi della sperimentazione
La genesi del programma PIL di Unife ha radici in una sperimentazione organizzativa svolta presso lo stabilimento Petrolchimico che a metà degli anni 90, all’avvio di una fase di intenso sviluppo e innovazione tecnologica, riuscì ad accelerare il consolidamento dei propri organici di ricerca e di nuova produzione tramite l’inserimento di giovani neo diplomati e neo laureati nelle “squadre” di conduzione degli impianti e dei laboratori al fine di “liberare” operatori e tecnici già professionalizzati con cui formare altre squadre da dedicare ad “attività aggiuntive, innovative, a maggior rischio di riuscita”. Tale rischio veniva assorbito a livello di headcount del personale, prevedendo per gli assunti, in quella fase, il ricorso a contratti a tempo determinato della durata di 12 mesi (da qui, il nome assegnato al progetto: CAT, ovvero, banalmente, “contratti a termine”).[2]
L’intento (pienamente conseguito) era quello di realizzare una forte accelerazione nel raggiungimento dell’obiettivo produttivo aziendale, ma la sperimentazione fece emergere risvolti interessanti su molte dimensioni: in particolare, i giovani inseriti venivano rapidamente formati, aumentava la loro flessibilità operativa e (implicitamente) la loro occupabilità; allo scadere del contratto a termine trovavano lavoro in tempi decisamente più rapidi, nella stessa impresa o in altre, avvalendosi dell’esperienza e della “formazione” complessiva acquisita.
Sulla base del successo di questa pratica, nell’anno 2000 fu promosso dal Comune di Ferrara e dagli enti della Provincia, con la partecipazione di Sindacati e Associazioni di imprese, un “Patto per il lavoro”, che prevedeva anche la promozione nelle aziende piccole e medie locali di Contratti di prima esperienza lavorativa (CPE) largamente ispirati alla sperimentazione CAT, con anche la possibilità di esplorare percorsi di “carriera esterna” per i giovani (per prestazioni svolte in successione e a crescente professionalità, da un’azienda all’altra) attraverso il tessuto delle PMI locali.
Successivamente, a partire dall’anno accademico 2000 – 2001, questa modalità di transizione dallo studio al lavoro è stata proposta ai laureandi della Facoltà di Economia con il progetto CPE/Università, rinominato PIL dall’anno successivo ed estesa poi a tutti agli studenti di tutti i corsi di laurea dell’Ateneo.
Nel trasferire le esperienze precedenti (CAT, nella grande azienda, e CPE nel tessuto delle PMI) al contesto universitario, si procedeva per tratti di continuità e discontinuità che dovevano essere reinterpretati e aggiustati. Il principio comune di riferimento della sperimentazione CAT e CPE restava comunque quello di inserire, in modo regolato, giovani in contesti lavorativi veri, in modo da: consentire alle aziende di realizzare le necessarie mobilità interne per lo sviluppo di nuove attività; consentire ai giovani di fare una prima vera esperienza lavorativa (in un contesto formativo) spendibile sul mercato del lavoro; offrire alle istituzioni operanti sul mercato del lavoro (enti, sindacati, associazioni, ecc) un terreno di verifica per le politiche di governo della flessibilità in entrata.
Nei progetti CAT e CPE il soggetto proponente muoveva dal campo della “domanda di lavoro” (un’azienda o un gruppo di aziende, che promuovono l’assunzione di un gruppo di lavoratori, per i quali si costruisce il progetto formativo), nel PIL il soggetto proponente viene a muovere ora dal campo dell’Università (ma, potenzialmente, da una qualsiasi altra istituzione scolastica), e prospetta alla generalità delle aziende (di un settore, di un’area territoriale) l’allocazione di propri studenti, in fase conclusiva degli studi, attraverso un percorso standard che l’Università predispone in ragione del training di orientamento che intende garantire e dei processi di selezione e abbinamento candidati-aziende prescelti.
La logica dell’inserimento in azienda è sempre la stessa e si estrinseca nelle due possibili forme attivate dalle contingenti necessità e condizioni organizzative: 1) il subentro nel “gruppo di lavoro” di risorse nuove (temporanee) che liberano risorse esperte (risultate temporaneamente carenti) per attività più complesse; 2) il completamento di “gruppi di lavoro” per nuove iniziative per le quali non si dispone di risorse quantitativamente sufficienti. In entrambi i casi, i nuovi entrati, seppure inesperti, sono in grado (legittimati per effetto del rapporto regolato dal contratto collettivo di lavoro) di partecipare alla “comunità di pratica” come gli operatori “fissi”.
3. Gli Obiettivi e i Risultati della sperimentazione PIL: l’Adattabilità reciproca nel processo di Orientamento all’incontro domanda – offerta
L’assunto di base del progetto di sperimentazione della Facoltà di Economia partiva dalla convinzione che inserire il lavoro nella fase finale degli studi, quando mancano pochi esami o la sola tesi, riducesse il “tempo di transizione” per entrare a pieno titolo nel mercato del lavoro: la vera cesura a cui si trova di fronte la gran parte dei giovani in uscita dai cicli scolastici.[3]
Inoltre, questo effetto di accelerazione veniva rafforzato dalla particolare procedura di “selezione reciproca” tra candidati e imprese. In un primo passaggio erano le imprese che individuavano (tramite i colloqui di selezione) gli “idonei” tra i laureandi che avevano scelto quella data impresa, inserendoli in una graduatoria di preferenze; in un secondo tempo erano i candidati dichiarati “idonei” a scegliere in quale impresa allocarsi.
E il dispositivo ha funzionato, in quanto le imprese hanno capito che è nella loro convenienza mettersi in casa un giovane che li aveva scelti e che, più spesso di quanto pensavano, si era rivelato “quello giusto”. Confidando che sempre più i giovani possono avere qualcosa da dire anche alle imprese, una loro motivata scelta di “quella particolare impresa” rappresentava un valore aggiunto per la stessa, in un mondo dove la mobilità si è talmente accentuata che …. quasi, quasi farsi scegliere paga più di scegliere.[4]
Ma la scoperta, inizialmente più sorprendente, della sperimentazione fu data dal rilevare che, non di rado, le imprese inseriscono ai primi posti delle loro graduatorie, figure di laureandi che, per tipo di studi e titolo di laurea, non corrispondono affatto alla figura che avevano cercato quando si erano presentate in aula di fronte ad un centinaio di candidati. Succede infatti che nello sviluppo del confronto con gli studenti i responsabili aziendali verifichino meglio che il mix di competenze cercate può combinarsi in titoli di studio diversi e alla fine la dotazione personale del candidato (comprendendo anche le competenze “trasversali” e personali) possa fare premio sullo stereotipo del titolo di studio, a cui peraltro gli stessi studenti pagano spesso un tributo che, almeno in partenza, li condiziona e restringe il campo delle candidature da loro ritenute possibili.[5]
Per questa via, con questo particolare meccanismo di selezione, un significativo numero di allocazioni che si realizzano (con buona soddisfazione di studenti e imprese) nell’esperienza PIL, non sarebbero avvenute attraverso le usuali procedure di un “normale” centro per l’impiego, sia pure dotato di esperti “collocatori”.
Nella proposta PIL assume quindi un rilievo strategico l’accompagnamento dei giovani che è fatto di colloquio in entrata, formazione, colloqui di selezione, tirocinio, lavoro, monitoraggio e verifica degli apprendimenti e delle competenze di studio e di lavoro acquisite. Un accompagnamento che serve non solo ai giovani ma anche alle imprese che, più di un tempo, possono ora essere supportate nei loro percorsi di sviluppo e innovazione (e, se di minori dimensioni, a “non avere paura ad assumere laureati”).
Da queste esperienze ferraresi emergono significative assonanze, se non vere e proprie conferme. Così, nella prima sperimentazione presso la grande azienda diversificata trova spazio la consapevolezza dell’importanza che giocano i mercati del lavoro interni all’impresa e per i quali, più spesso di quanto non si creda, le imprese (specie quelle che hanno forti competenze distintive proprie) possono trovare il personale che cercano, solo al proprio interno, facendo crescere i collaboratori che hanno già. Spesso invece per coprire i posti vacanti si crede di poter trovare sul mercato esterno una figura che, semplicemente, non esiste. Come, per altri versi, si ha evidenza del funzionamento della “carriera esterna”, cioè della possibilità di aumentare l’occupabilità dei giovani in entrata nel mercato del lavoro anche attraverso una successione di rapporti di lavoro a crescente professionalità, in cui il contratto a termine può rappresentare lo strumento di una ”buona flessibilità” in ingresso.
4. Per un nuovo rapporto tra Istruzione e Servizi per il Lavoro: le Nuove Istituzioni della Transizione
Infine, la sperimentazione PIL presso Unife conferma il valore dei percorsi in alternanza per la capacità di favorire e accelerare l’apprendimento. Le tre fasi dell’istruzione, formazione e lavoro – che normalmente vengono percorse in successione e in tempi distinti – nel percorso PIL tendono a compenetrarsi (come tre segmenti di un “cannocchiale”) integrando e potenziando i contenuti dell’apprendimento complessivo. E il cannocchiale può essere calibrato nell’estensione dei suoi diversi segmenti in base alle diverse esigenze formative e ai diversi mix studio-lavoro.
La pratica PIL sembra quindi suggerire alla “politica” che, per un paese con risorse limitate, la via più efficace non sia quella di tentare di investire in modo massiccio sulle procedure attuali dei Servizi per il lavoro, ma di innovarle. Gli operatori devono essere certamente accresciuti di numero e liberati dai molti adempimenti formali che tolgono tempo al vero incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma si deve assolutamente strutturare quell’azione di accompagnamento che si è rivelata così efficace nell’esperienza descritta.
Sul tema di come scuole e università possano partecipare a questo compito della transizione al lavoro, il dibattito va decisamente affrontato, assieme alla ricerca degli strumenti da attivare.[6]
La nuova sfida è quella di creare le condizioni per cui l’orientamento e l’accompagnamento degli studenti, che si diplomano e si laureano, si protenda fin “dentro” i servizi per l’impiego senza soluzione di continuità, in modo che ci sia davvero un servizio ad un cliente che è sempre lo stesso: prima studente, poi diplomato o laureato e infine in cerca di primo impiego.
Per concludere, un cenno alla valutazione espressa dai principali “utenti” di questi percorsi: sono apprezzati dalle imprese (che li vivono come “un vero servizio” per un efficace incontro tra domanda e offerta di lavoro di loro interesse), così come sono apprezzati dagli studenti, per il sostegno fornito con l’accompagnamento nel confronto con le aziende, in questa importante fase della loro entrata nel mercato del lavoro e della loro prima esperienza lavorativa.[7]
UNO SCHEMA PER APPROFONDIMENTI MIRATI
TEMI DI RIFERIMENTO PER ANALISI E PROPOSTE SUL LAVORO DEI GIOVANI
Il dibattito ricorrente, soprattutto nei momenti di stagnazione dell’economia, intorno alle difficoltà nell’assicurare ai giovani una soddisfacente disponibilità di posti di lavoro si arena inevitabilmente sulla considerazione che se i posti di lavoro sono a rischio per i già occupati (candidati al ruolo di disoccupati, almeno temporanei), resta ben poco da spartire per gli inoccupati (candidati al ruolo di “neet” o di occupati “precari” a tempo indeterminato, cioè indefinibile).
Senza addentrarci nell’analisi delle variabili in gioco nella produzione di quel rischio – riconducibili, genericamente, alla intensità e qualità della crescita (o de-crescita), dalla quale la qualità e quantità del lavoro viene fatta discendere – e che costituiscono indiscutibilmente il “bersaglio grosso” della economia del lavoro e delle politiche occupazionali, ci limiteremo ad evocare possibili azioni attivabili in due campi, magari ritenuti secondari per gli effetti quantitativi di breve periodo ma, al tempo stesso, forse strategici nel medio. I due campi, a cui verranno riferiti alcuni temi specifici dello Schema di analisi qui proposto, riguardano essenzialmente:
1) gli spazi per interventi di redistribuzione del lavoro disponibile, al fine di contrastare la concentrazione della disoccupazione in particolari fasce di soggetti (i giovani, appunto) … in attesa che la “mano invisibile” della ri-crescita provveda ad aumentare significativamente la disponibilità di posti di lavoro ad “orario pieno” per tutti;
2) gli spazi e le modalità di intervento sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro, per recuperare le opportunità di allocazione nelle posizioni rese vacanti in ragione della qualità di quel mismatch: essenzialmente riferibile alla formazione e alle competenze dell’offerta.
Un terzo campo d’azione, obbligato, resta quello collegato all’approccio economico politico che deve, nell’ordine, fronteggiare (ammortizzare) gli effetti di breve periodo delle crisi e sostenere (incentivare) le azioni di ri-crescita e sviluppo.
Al fine di raccogliere valutazioni, critiche e proposte su alcune di tali possibili azioni, è stata abbozzata una raccolta di temi, distribuiti sui tre campi citati, per non pochi dei quali in occasione di precedenti fasi di crisi economico occupazionali sono state sperimentate soluzioni “tecnico politiche” particolarmente efficaci e comunque suscettibili di nuove verifiche e nuove sperimentazioni.
Sommario dei Temi proposti
1. La Qualità del Lavoro Offerto
1.1.L’Apprendimento Situato in ambito lavorativo integrato nella Didattica Scolastica e Universitaria
1.2.Il Ruolo delle Istituzioni Scolastiche e Universitarie nella Transizione Studio Lavoro
1.3.Il Ruolo delle Aziende nell’integrazione delle Competenze di Lavoro e di Studio
1.4.Le Nuove Istituzioni della Transizione Studio Lavoro
2. La Quantità e la Qualità del lavoro disponibile e la sua Distribuzione
2.1. Le possibili Forme della Redistribuzione del Lavoro tra Occupati e Inoccupati
2.2. La Struttura dei Percorsi Formativi nei Processi Produttivi
2.3. Il Turnover Efficace e Sostenibile
2.4. Le Figure Professionali nel Trasferimento delle Competenze
3. La Politica economica per lo Sviluppo e la Sostenibilità del Lavoro
3.1. Le Politiche di Sviluppo a partire dal Nuovo Welfare
3.2. Le Priorità dell’Azione Sindacale e del Confronto tra le “Parti”
3.3. I Patti Regionali
3.4. La Politica Economica Nazionale
1. La Qualità del Lavoro Offerto
In questa prima parte dello Schema vengono individuati alcuni temi ritenuti cruciali nel qualificare i tratti caratteristici dell’offerta di lavoro giovanile, partendo dalla condizione di studenti (e dalla problematica dell’apprendimento) e dal ruolo delle istituzioni coinvolte (scuole e università, e aziende) per delineare un possibile aggiornamento di questi ruoli, verso nuove “istituzioni della transizione” studio – lavoro.
1.1 L’Apprendimento Situato in ambito Lavorativo integrato nella Didattica Scolastica e Universitaria
“Questo non posso insegnartelo io in aula o indicarti dove studiarlo … devi apprenderlo sul campo”.
“Il professore universitario tende a non uscire dalla sede del proprio insegnamento, non ha idea di cosa ci sia ‘fuori’, insegna come se dovesse preparare i giovani per farne solo dei ricercatori e dei professori”.
“Nella connessione tra università e azienda, tra studio e lavoro, la fase lavorativa deve essere progettata: c’è un lavoro preciso di individuazione e specificazione, di coprogettazione delle condizioni di inserimento degli studenti nell’organizzazione aziendale in termini di aree di attività, progetti di sviluppo, profili professionali. Progettare la fase lavorativa è ben diverso dal ‘semplicemente’ farla … se l’obiettivo è una ricaduta positiva di tipo formativo”.
“La sperimentazione di forme di partecipazione a sistemi di attività lavorativa con valore formativo rompe un muro molto resistente, soprattutto nell’università italiana, che non consente di immaginare che ci sia qualcosa di formativo oltre quello che i professori insegnano in aula … e che sia valutabile con la stessa unità di misura usata per valutare normalmente le attività formative universitarie”.
I limiti di una didattica essenzialmente ripartita tra “lezioni in aula” e “studio personalizzato” e di progetti di alternanza “segmentata e separata”, tra “fasi di studio” e “percorsi esperienziali”, vengono evidenziati e resi superabili in un’ottica di progettazione di “percorsi formativi integrati”, in cui i contenuti formativi sono evidenti e distinguibili nei diversi contesti in cui si sviluppa il percorso di apprendimento complessivo.
Le resistenze di una visione per così dire “statica” della transizione (prima c’è la scuola e poi c’è il lavoro) e dell’alternanza (un po’ di scuola e un po’ di lavoro) derivano dal fatto che si fa riferimento ad un lavoro e ad una scuola tutto sommato “stabilizzati” e con modeste esigenze di aggiornamento di metodologie e contenuti. Stenta forse ad emergere la consapevolezza che la nuova rivoluzione industriale sta cambiando il modo di produrre beni e servizi e sta cambiando il lavoro, e che la chiave (e la qualità) dello sviluppo sta nel modo in cui si realizza l’integrazione tra “capacità educativa” e “capacità di organizzare il lavoro”.
I soggetti in campo (personale della scuola e personale delle aziende) sono chiamati a confrontarsi e condividere questo fatto, e a partecipare alla progettazione e sperimentazione di percorsi “formativi” in grado di supportare e orientare “il governo” delle trasformazioni già in atto.
1.2 Il Ruolo delle Istituzioni Scolastiche e Universitarie nella Transizione Studio Lavoro
“Tempo fa a frequentare l’università erano in pochi e il professore con cui ti laureavi poteva aiutarti a trovare il posto di lavoro in cui esercitare la professione… questo ‘servizio’ oggi non è più possibile, o è possibile per una quota minima di studenti. Alcuni di noi hanno fatto questa esperienza nei grandi collegi universitari, e lì avevamo la sensazione che l’istituzione si occupasse di noi. La maggioranza dei giovani che noi incontriamo oggi all’università non ha la stessa sensazione.
Farlo, oggi, è una grande cosa … che ha un senso di obbligazione morale tra generazioni, che avviene su di un terreno molto pratico, che è quello del Lavoro”.
“L’Europa riconosce, fin dagli atti della Commissione Europea dell’anno 2000 dedicata a ‘L’innovazione in una economia fondata sulla conoscenza’, che oltre ai ruoli svolti tradizionalmente nei campi dell’istruzione e della ricerca, le università debbano assumere una ‘terza missione’: promuovere la diffusione della conoscenza e delle tecnologie, tenendo conto che l’attività di innovazione non si basa solamente sulla ricerca, l’industria ad alta tecnologia e l’imprenditorialità individuale … ma anche su nuovi metodi di gestione, su nuovi modelli imprenditoriali basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, su investimenti in nuove competenze. Obiettivi, questi, che necessitano di un’azione specifica che promuova le ‘interfacce chiave’ delle reti di innovazione e, in particolare, tra aziende, centri di ricerca, istituti di formazione”.
“C’è un problema politico, che riguarda i modi con cui si inseriscono nel sistema di valutazione dell’università le attività di promozione, gestione e valorizzazione dei percorsi di transizione al lavoro in relazione alla didattica tradizionale: c’è la necessità di riconoscere concreti strumenti di sostegno alla promozione delle nuove forme di inserimento al lavoro per non lasciare le iniziative al contributo volontario di qualche docente particolarmente motivato”.
Il progressivo rifiuto della dicotomia tra “promozione della ricerca” da un lato e “assorbimento e sviluppo della tecnologia” dall’altro, a favore di una visione “sistemica” che superi le barriere tra i due mondi separati, ha posto la questione/obiettivo del ruolo che i giovani studenti, diplomati, laureati possono svolgere nell’implementazione del vasto campo della “terza missione” cioè dell’insieme di programmi e azioni di rapporto organico tra le istituzioni dedicate all’istruzione e alla ricerca e le altre istituzioni e organizzazioni economico sociali del territorio.
Nel contesto qui richiamato, l’intervento sull’interfaccia (cioè nel campo che dovrebbe essere presidiato proprio dalla terza missione) tra ambiti dell’istruzione (scuola e università) e ambiti della produzione (imprese e aziende pubbliche) riguarda, infatti, soprattutto quei soggetti che possono agevolare e diffondere il trasferimento tecnologico (largamente inteso): gli studenti e i giovani in uscita dai diversi percorsi di studi, in transizione verso il mercato del lavoro e l’inserimento nelle aziende.
Tuttavia, la terza missione, nella generalità delle esperienze note, è ancora rappresentata da “visoni” certamente condivisibili, ma generalmente tradotte in “repertori distinti” (es, creazione d’impresa, eventi culturali, responsabilità sociale, …) e valutati separatamente, magari con sistemi dettagliati di “controllo qualità” ma con scarse possibilità di acquisire e assimilare feed back utili al sistema didattico complessivo (cioè alla “prima missione”).
Esperienze avanzate esistono e dall’analisi di quei casi (che il Programma FIxO dell’Agenzia Italia lavoro / Anpal ha cercato di sostenere e diffondere, fino a qualche anno fa) si può ripartire.
1.3 Il Ruolo delle Aziende nell’Integrazione delle Competenze di Lavoro e di Studio
“L’utopia che vi presento è che sia possibile professionalizzare non solo quelli che hanno fatto il politecnico o le scuole tecniche, ma che sia possibile professionalizzare tutti. Il lavoro del futuro sarà fatto di ruoli definiti in maniera ampia in cui ci sarà lo spazio di interpretazione del ruolo in base al contesto, alla formazione, alla motivazione delle persone. La formazione è importante, ma è importante se anima i ruoli, non se semplicemente ti insegna l’informatica e poi … ti arrangi”.
“L’Apprendistato viene generalmente considerato nella sua particolare forma di ‘contratto di lavoro a causa mista’, con obbligo di lavoro e di formazione. Ma la ‘causa mista’ rappresenta l’unica modalità per integrare e potenziare i percorsi di apprendimento nel lavoro con le competenze di studio acquisibili nell’ambito della didattica scolastica. La ‘causa mista’ è (deve poter essere) di fatto presente in ogni forma di rapporto di lavoro”.
“Nella difesa del lavoro c’è bisogno di un agente contrattuale proattivo, che non si limita a contrattare ex post quello che sta avvenendo, ma che prende partito e che ha un ruolo già prima che si verifichino le trasformazioni, trovando soluzioni che proteggano sostenibilità e qualità della vita di lavoro. Così le aziende, al livello della produzione, per sopravvivere, sempre più devono tener conto dell’ambiente, delle persone, del territorio.
Questo, perché il lavoro (sia del giovane ingegnere, sia del tecnico, dell’operaio di produzione, del cameriere, della badante) deve essere qualcosa che assicura identità e dignità. Perché il lavoro richiede competenze tecniche complesse, ma anche competenze sociali raffinate, come il saper lavorare insieme, l’avere il senso dell’obiettivo, risolvere problemi, ecc. Un lavoro che non sarà più definito da mansioni, profili, declaratorie, posizioni, livelli, ma soprattutto da ruoli e professioni …. Questa idea di ricostruire le professioni è aperta, è necessaria per fare piani formativi, per definire linee di sviluppo personale e di carriera”.
“In questo percorso di partecipazione e progettazione non c’è solo l’azienda e il sindacato, ci sono le istituzioni pubbliche (che devono fornire incentivi e regolare diritti), l’università e la scuola (che non possono limitarsi a erogare lauree e diplomi ma devono entrare nel merito della progettazione dei nuovi lavori)”.
La “sostenibilità” di una proposta e di una pratica di lavoro è misurata dalla garanzia formale e sostanziale della possibilità di integrare le due “cause” (lavoro e formazione) e documentarne gli esiti.
Questa garanzia deve essere assicurata anzitutto da una parte specifica del contratto di lavoro, per la quale sindacati e imprese condividono a livello strategico (nazionale, di settore, di categoria…) l’importanza dell’istituto, con la previsione di una applicazione e uno sviluppo a livello di azienda, sito o territorio.
Le istituzioni dell’istruzione (scuola, università) e della formazione, a loro volta, dovranno proporre i “piani di studio” complessivi e integrati, e le istituzioni che presidiano i servizi per il lavoro (in cui operano i centri per l’impiego, le agenzie …) dovranno ripensare e riproporre le “procedure di riconoscimento e accreditamento” delle competenze professionali in gioco e acquisibili nei diversi contesti lavorativi.
1.4 Le Nuove Istituzioni della Transizione Studio Lavoro
“Quello che pare davvero manchi nella nostra configurazione italiana dei servizi per il lavoro è la ‘dimensione di sistema’. Paradossalmente noi abbiamo una rete Eures che funziona meglio dell’interconnessione tra i Centri per l’impiego all’interno della stessa regione: è più facile per uno sportello Eures vedere quali opportunità di lavoro ci sono in Francia, in Spagna o in Portogallo che non nella provincia vicina”.
“Il quadro generale che abbiamo difronte ci pone la necessità di costruire il sistema italiano delle politiche attive del lavoro sempre più attorno all’utente, cioè alla persona da seguire in tutte le fasi della sua vita, raccordando la parte educativa e la parte formativa, la scuola, la scuola professionalizzante, il centro di formazione professionale, l’alternanza scuola lavoro, l’apprendistato, l’inserimento lavorativo, la mobilità e il reinserimento, fino alla pensione”.
“La nuova sfida è quella di creare le condizioni per cui l’orientamento (e l’accompagnamento) degli studenti, che si diplomano e si laureano, si protenda fin ‘dentro’ i servizi per l’impiego senza soluzione di continuità, in modo che ci sia davvero un servizio ad un ‘cliente’ che è sempre lo stesso: prima studente, poi diplomato o laureato e infine in cerca di primo impiego”.
Le esperienze maturate nel campo della transizione studio – lavoro rendono evidente l’esigenza di assicurare la continuità dell’azione di “accompagnamento”, attraverso l’integrazione delle funzioni all’interfaccia delle strutture coinvolte (servizi di “Orientamento in uscita” dalla scuola/università e di “Orientamento in accoglienza” dei Servizi per il lavoro) e l’adattamento degli strumenti utilizzabili.
Si può continuare a ritenere che i Centri per l’impiego siano il luogo esclusivo e specializzato per questo tipo di accompagnamento, ma c’è anche un’altra concezione possibile che vede questo processo come il risultato dell’interazione integrata di una serie di soggetti dei quali nessuno di per se ha una vocazione di accompagnamento come tale, ma tale funzione può essere gestita in qualche modo “diffusamente” dai soggetti diversi e collaboranti, nel territorio.
La via più efficace (ed anche, economicamente, più efficiente) non sembra, quindi, quella di tentare di investire in modo massiccio sulle procedure attuali dei Servizi per il lavoro, ma di innovarle. Gli operatori devono essere certamente accresciuti di numero e liberati dai molti adempimenti formali che tolgono tempo al vero incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma si deve contemporaneamente riprogettare e adeguare la struttura complessiva tenendo conto di quelle modalità dell’azione di accompagnamento che si sono rivelate particolarmente efficaci nelle esperienze richiamate.
2. La Quantità e la Qualità del Lavoro Disponibile e la sua Distribuzione
L’occupabilità dei giovani (intesa genericamente come possibilità di trovare un posto di lavoro) non è data solo dalla quantità materiale di posti disponibili e dalla idoneità, caso per caso, di chi si offre per occuparli. Un ruolo fondamentale può essere giocato dalle modalità con cui viene governato il turnover tra gli anziani in uscita e i giovani in entrata.
Gli strumenti della distribuzione del lavoro (attraverso la flessibilità degli orari e della durata del rapporto di lavoro) e della progettazione di percorsi formativi possono conferire un valore aggiunto in termini di qualità delle allocazioni e di un loro “effetto leva” verso i volumi della produzione e dell’occupazione.
2.1 Le possibili Forme della Redistribuzione del Lavoro tra Occupati e Inoccupati
“La disoccupazione giovanile è il problema numero uno di tutti i governi europei, dove politiche sbagliate nel momento sbagliato (crisi della domanda) hanno prodotto 6 milioni di giovani senza lavoro e 7,5 milioni di giovani inattivi che non studiano e non lavorano. Tra gli under 25 i tedeschi che non lavorano sono il 7%, in Grecia e Spagna sono oltre il 50%, in Italia il 40%. I paesi che hanno fatto politiche redistributive su orario e durata del lavoro (disincentivazione degli straordinari, contratti di solidarietà a sostegno di orari ridotti, pensionamento progressivo, ecc.) sono quelli con una durata di lavoro media annua inferiore e tassi di occupazione più alti: Germania, Olanda, Gran Bretagna, Austria, con mediamente 1400 ore pro capite lavorate all’anno hanno tassi di occupazione sulla popolazione di 15-64 anni oltre il 70%, mentre l’Italia con circa 1800 ore anno registra un tasso inferiore al 60%”.
“E’ difficile proporre una politica di riduzione dell’orario a parità di salario, così come ipotizzare che alla riduzione delle ore lavorate corrisponda una riduzione proporzionale del salario. Nel primo caso è prevedibile un aumento del costo del lavoro e l’opposizione delle imprese, nel secondo caso una decurtazione del reddito e la resistenza dei lavoratori. Una soluzione è quella di calibrare il carico fiscale e contributivo sul salario a seconda della durata dell’orario: alleggerendolo per gli orari ridotti e aggravandolo per quelli di più lunga durata, da una fascia di orario bassa esente da ogni onere, tanto per il lavoratore che per l’impresa, fino agli oneri attuali per le 40 ore contrattuali vigenti. Tenuto conto dell’alto tasso di disoccupazione giovanile, l’introduzione di fascie orarie flessibili offrirebbe alle generazioni più giovani una porta di ingresso nel mercato del lavoro evitando la trafila di lavori precari e privi di tutela”.
“L’Italia non ha sviluppato una politica per redistribuire le ore lavorate. Il part time non è mai decollato, soprattutto per l’assenza di veri vantaggi per le imprese e per i lavoratori, lo straordinario è stato quasi detassato … il risultato è che il numero di ore lavorate pro-capite risulta maggiore che in quasi tutti gli altri paesi europei.
Sono tre le proposte da approfondire: oltre le 30 ore settimanali il lavoro deve costare di più, lo straordinario deve essere disincentivato con un alto prelievo fiscale, i contratti a tempo parziale debbono diventare in genere la modalità ordinaria di assunzione nella pubblica amministrazione …”.
Il tema dell’orario di lavoro e della sua possibile riduzione finalizzata ad una redistribuzione del lavoro disponibile, al di là delle enunciazioni ricorrenti a favore o contro, ha rappresentato un difficile banco di prova al momento di approfondire il confronto e concretizzare sintesi sufficientemente condivise e applicabili. Le difficoltà sono derivate, come si sostiene da più parti, dall’idea largamente condivisa di privilegiare “la crescita” come strumento principe di politica economica in grado anche di assicurare lo sviluppo e l’automatica disponibilità della quantità e qualità dei posti di lavoro in grado di soddisfarne la ricerca.
Fermo restando che il problema del costo di ogni intervento sulla struttura del mercato (compreso quello del lavoro) è che il costo deve essere individuato e “coperto”, si ritiene che la valorizzazione dei risultati raggiungibili da modalità di redistribuzione del lavoro (che tengano conto della necessità di assicurare ai giovani percorsi sostenibili di entrata nel mercato) sia prioritaria. A partire da forme di “combinazione” di studio (vero) con lavoro (vero).
2.2 La Struttura dei Percorsi Formativi nei Processi Produttivi
“Lo ‘spazio formativo’ [cioè l’insieme di strutture, programmi e opportunità formative presenti e attivabili in un dato contesto] rende ottimizzabile la mobilità interna all’organizzazione lavorativa e crea il presupposto per la ‘buona flessibilità’ in entrata”.
“Uno dei punti di forza di percorsi formativi che comprendono significative fasi lavorative sta nel far entrare nelle aziende i giovani con una sorta di ‘lasciapassare’ che consente loro di avere tutta una organizzazione che li sostiene. Tra i benefici che ne trae l’azienda (nel mantenere una posizione ‘vacante’ che viene coperta a turno da un anno all’altro da un giovane in formazione) c’è quello che, nel processo di trasferimento delle conoscenze, le job description e le procedure inerenti la funzionalità di quel determinato ‘posto’ vengono costantemente riviste, aggiustate, in modo da tenerlo pronto per quando lo si deve rendere disponibile; insomma, un ‘tavolo al ristorante’ dove cambiano le persone, ma che è sempre ben preparato, apparecchiato, per i successivi clienti”.
“Il dispositivo del ‘posto a tavola sempre apparecchiato’ per assicurare spazi per primi inserimenti lavorativi (ad alto tasso di apprendimento) a rotazione per giovani studenti e neodiplomati rappresenta un’esperienza ad alto impatto sul funzionamento dei ‘mercati del lavoro interni’ alle aziende (per far fronte alle esigenze di copertura professionale dell’upgrading tecnologico e organizzativo) e sull’occupabilità dei giovani (così formati) al momento del loro inserimento nel mercato del lavoro esterno”.
Nelle grandi e medie aziende, e comunque in tutte quelle “attrezzabili allo scopo”, è possibile sperimentare la disponibilità di posizioni lavorative occupabili “a rotazione annuale” da giovani (studenti, diplomati, laureati) nell’ambito di percorsi accompagnati di inserimento lavorativo.
Se c’è l’interesse dei soggetti in gioco (i giovani, in cerca di una prima vera esperienza lavorativa; le imprese, interessate a verificare la “qualità” dell’offerta di lavoro disponibile rispetto alle caratteristiche inizialmente richieste; le istituzioni pubbliche preposte, interessate a verificare le coerenze dei progetti nell’ambito delle politiche di sviluppo e disponibili a sostenerne i costi della “formazione”), il risultato può essere di facile acquisizione.
Esperienze svolte in contesti progettati ad hoc hanno fatto registrare quote di inserimenti di questo tipo anche superiori al 10% dell’organico aziendale attivo, con un incremento dell’occupabilità dei giovani coinvolti (misurato dal proseguimento del contratto di lavoro nella stessa azienda o in altre aziende, e dalla coerenza delle “mansioni” assunte rispetto al percorso formativo svolto), nettamente superiore ai tassi standard.
2.3 Il Turnover Efficace e Sostenibile
“La drammaticità della situazione nazionale in questa fase Covid-19, unita all’adozione nelle deliberazioni governative del Protocollo condiviso tra le parti sociali, ha favorito la disponibilità a livello aziendale all’ascolto e al recepimento di letture critiche, proposte e richieste da parte sindacale. Il fatto che difronte a criticità, in ambito lavorativo si scelga il dialogo, la capacità di ascolto, di sentirsi reciprocamente criticati senza arrivare ad uno scontro con le modalità classiche dei rapporti ‘tra le parti’, non può essere considerato un risultato secondario e ininfluente. Per questo, il ‘lavoro sindacale’ nel gestire dentro le imprese interventi sulle condizioni di lavoro (particolarmente in questa fase) dovrebbe essere parte integrante della elaborazione e della proposta sindacale confederale”.
“Sarebbe forse opportuno, per creare più domanda di lavoro anche nelle aziende esistenti, accompagnare i nuovi ingressi con part time in uscita. Part time sostenuti economicamente, in cambio di attività formativa che coinvolge i nuovi entranti; competenze che vengono trasferite dai più esperti ai meno esperti. Esempi di questo tipo in processi di riorganizzazione sia di imprese private che di enti pubblici hanno funzionato positivamente valorizzando e stabilizzando il nuovo lavoro”.
“La ‘staffetta generazionale’ appare generalmente come un dispositivo (o, più semplicemente, una rappresentazione) che registra il ricambio del personale in una visione pressoché statica dei fattori produttivi e organizzativi e di un quadro di professionalità stabilizzate. E’ sempre più necessaria una ripresa e rielaborazione della problematica del turnover e del confronto tra le parti alla ricerca di modalità che favoriscano il consolidamento dei livelli occupazionali, soprattutto nelle fasi di cambiamento e rilancio produttivo”.
Oggi, più di ieri, la gestione efficace del turnover rappresenta un processo continuo di adattamento dei ‘fattori produttivi’ secondo percorsi ottimizzabili per creare condizioni sostenibili per ciascuno dei fattori stessi e dei soggetti convolti. Problematica particolarmente sensibile e difficile da comporre per il confronto sindacale, in quanto i soggetti direttamente coinvolti rappresentano categorie di lavoratori periferici rispetto al “grosso” dei rappresentati: i giovani il lavoro lo stanno ancora cercando, gli anziani stanno per lasciarlo.
Tuttavia, entrambe le categorie possono trovare le convenienze a partecipare a programmi di turnover fortemente valorizzati da percorsi formativi individuali e di gruppo e largamente situati nelle comunità di pratiche lavorative, in cui i processi di apprendimento nell’interazione tra anziani e giovani possono creare le convenienze necessarie (compresi specifici riconoscimenti economici per i risultati formativi e allocativi).
2.4 Le Figure Professionali nel Trasferimento delle Competenze
“Nelle grandi ristrutturazioni aziendali (soprattutto se assistite da ammortizzatori che prevedono anche forme di uscita in prepensionamento) e anche negli aggiustamenti progressivi il sistema organizzativo ha fatto frequentemente ricorso alle competenze di personale ‘anziano’ prossimo all’uscita, o già uscito, attivandone il ‘recupero’ con rapporti di collaborazione ‘consulenziali’. Ci si è chiesto in più occasioni se una particolare applicazione del normale rapporto di lavoro contrattuale per queste figure possa rendere più fluide, produttive e ‘regolari’ queste prestazioni professionali”
“La formula ‘metà pensione e metà lavoro’ indica una possibile condizione lavorativa da tempo prevista a livello di Unione Europea, quando, con la Comunicazione del luglio 1980 ci si è posta la possibilità del pensionamento ‘flessibile e progressivo’. In quel documento, in materia di adattamento del tempo di lavoro a fronte del deterioramento della situazione occupazionale (o anche dell’esigenza di soddisfare ‘aspirazioni e bisogni’ degli anziani) si registrava la tendenza dei diversi Stati ad adottare sistemi per l’introduzione di una duplice flessibilità: da un lato una maggiore libertà di scelta individuale dell’età pensionabile e, dall’altro, ‘la possibilità di lavorare a tempo ridotto durante gli ultimi anni di vita attiva’.
Questa seconda evenienza in particolare era considerata rilevante nei casi in cui i lavoratori anziani interessati al part time, oltre ad ottenere un ‘sufficiente indennizzo’, avessero avuto ‘la fortuna’ di esercitare, nella propria carriera lavorativa, un’attività professionale ‘gratificante’, e quindi potessero essere interessati a prolungarla anche ad orario ridotto”.
La possibilità di ottimizzare la selezione delle competenze da trattenere in azienda a supporto del bilancio delle disponibilità professionali necessarie e del processo di turnover del personale potrebbe trovare una forma concreta nella definizione di profili di collaborazione part time per anziani prossimi all’uscita, prevedendo l’entrata nel regime pensionistico (con la fruizione della relativa quota dell’assegno maturato) assommata alla remunerazione per il part time lavorativo, riqualificato per l’eventuale upgrading del valore della prestazione richiesta e fornita.
3. La Politica Economica per lo Sviluppo e la Sostenibilità del Lavoro
In questa parte conclusiva dello Schema di analisi proposto vengono richiamati gli ambiti della Politica Economica particolarmente interessati al tema del lavoro dei giovani. Le scelte di sviluppo individuate dalla “Politica” e la capacità di confronto tra le “Parti sociali” (sindacati e imprese) possono offrire spazi significativi a livello nazionale e regionale/locale per il proseguimento del confronto e l’individuazione (e la pratica) di soluzioni concrete e controllabili di “accompagnamento” dei giovani nel mercato del lavoro.
3.1 Le Politiche di Sviluppo a partire dal Nuovo Welfare
“Da tempo, il mondo del lavoro e delle imprese è attraversato da profondi processi di innovazione (tecnologica, finanziaria, produttiva, di servizio) che rimettono in discussione mercati e competitività nazionali e internazionali delle imprese e del lavoro. Senza dimenticare una stagnazione della domanda interna (consumi e investimenti) e della produttività ormai trentennali. Ora, dopo la pandemia del coronavirus, l’Unione Europea ha deciso di finanziare i paesi colpiti chiedendo progetti e riforme coerenti in cambio di risorse molto consistenti (non disponibili a prescindere). Difronte a questa prospettiva non viene certamente meno l’esigenza di difendere le imprese in crisi e i posti di lavoro in bilico con ogni strumento possibile, rimescolando opportunità, competenze, orari, tempi, modalità di partecipazione, senza paura di sperimentare soluzioni nuove e difficili.
Ma il tamponamento delle crisi non sarà sufficiente per recuperare il Pil e l’occupazione perduti e il lavoro che non c’è va creato ex novo. Con politiche economiche adatte e finalizzate”.
“Nei documenti degli ‘esperti’ si parla di nuove infrastrutture (stradali, ferroviarie, telematiche). A questi obiettivi si deve aggiungere l’esigenza di una urgente rigenerazione delle città e del territorio. Della necessità non solo di riqualificare le periferie e di recuperare i centri minori e le aree interne quanto ridiscutere le tipologie abitative, i volumi, gli spazi verdi, i servizi domiciliari, i servizi di quartiere e il loro grado di autosufficienza e di connessione”.
“In un accordo nazionale di medio periodo devono essere compresi anche gli indirizzi per creare nuovo lavoro (specie per i giovani) e nuove imprese che rispondano ai bisogni che si sono determinati o acuiti con la crisi. Indirizzi sottoscritti anche dal nostro Paese dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile devono diventare assi strategici della ripresa. In questo contesto, la crisi (sanitaria, sociale ed economica) ha dimostrato che non esiste stabilità e sicurezza senza un Welfare pubblico diffuso nel territorio e omogeneo nella tutela universale della salute, come componente strutturale dello sviluppo e del benessere”.
Nell’ottica del ‘nuovo welfare’, attraverso cui rivalutare gli investimenti per la ripresa della crescita secondo le linee di sviluppo richiamate dall’Agenda 2030, uno spazio qualificante è determinato dalla quantità e qualità del lavoro che potrà favorire l’occupazione dei giovani. Non tanto un lavoro ‘per i giovani’, ma una effettiva ‘garanzia’ ai giovani di accesso alle occasioni di lavoro che matureranno nei nuovi piani per lo sviluppo.
Si dovrà porre mano alla riprogettazione dei percorsi di inserimento lavorativo per i giovani, con la previsione di un efficace ed efficiente sistema di accompagnamento dall’ambiente scolastico all’ambiente di lavoro e di valorizzazione dei conseguenti modelli di apprendimento integrato. Rappresenta, questa, una scelta fondamentale di investimento che potrà porre anche le basi per la definizione complessiva di una ‘via italiana’ dei Servizi per il lavoro.
3.2 Le Priorità dell’Azione Sindacale e del Confronto tra “le Parti”
“In fasi complesse e particolarmente difficili e anche drammatiche per i lavoratori, certe soluzioni sperimentali e coraggiose possono essere favorite da politiche sindacali orientate al coinvolgimento nella soluzione strategica dei problemi, come nel caso della ristrutturazione del settore Petrolchimico degli anni 80, quando il Sindacato decise di intervenire nei processi determinati dalla crisi finanziaria e produttiva dei grandi gruppi chimici, con il dichiarato intento di controllarne e gestirne gli effetti sulla base produttiva e sull’occupazione. Questa decisione comportò il dover fare i conti con una serie di problemi rilevanti, come l’utilizzo degli strumenti di legge per garantire l’occupazione, l’uso della formazione per rendere possibile il reimpiego dei lavoratori dei settori colpiti dalla crisi, la gestione dei processi di mobilità nei gruppi industriali e nel territorio, anche attraverso strumenti empirici e spesso in sedi informali. Contemporaneamente, all’interno dei luoghi di lavoro il sindacato e i delegati ebbero l’onere e l’opportunità di misurarsi con le conseguenze concrete delle scelte ‘strategiche’ fatte, con soluzioni anche particolarmente efficaci e innovative, diventate poi patrimonio di tutta la categoria”.
“Non sarà possibile tamponare la più grave crisi dal dopoguerra senza un New Deal (Social o Green che sia) che sostenga nuovi consumi e nuovi investimenti, quindi nuovi mercati, nuove imprese e nuovo lavoro anche con indirizzi e risorse pubbliche e con un nuovo percorso di condivisione a tre, tra Governo e parti sociali ed economiche, e questo anche a garanzia delle richieste dell’UE che finalizza le risorse disponibili, a precisi progetti coerenti.
Ma è ancora possibile realizzare un percorso di convergenza strategico-programmatica a livello nazionale, qualora le parti fossero disponibili? Forse no. Forse è meglio che ci si provi a partire dal territorio con un percorso ‘bottom up’: la visione locale può essere certamente più artigianale ma anche più fattiva. Resta solo da vedere se il sindacato è in grado di promuovere una nuova concertazione (nazionale o decentrata che sia), se ne ha la forza e la capacità. Decisamente sì, se le diverse componenti lo volessero davvero e unitariamente”.
La possibilità di realizzare patti sindacali a livello generale, settoriale, regionale può rappresentare una strategia efficace sia per l’attivazione di interventi pubblici a sostegno normativo e finanziario di politiche condivise, e sia per il proseguimento del confronto sindacale stesso sulla traduzione ‘locale’ (a livello aziendale e territoriale) in iniziative, progetti e realizzazioni concrete e controllabili di tali politiche.
3.3 I Patti Regionali
“Come è avvenuto per i terremoti del Friuli e dell’Emilia, occorre convertire l’emergenza in una forza di coesione che attivi patti per lo sviluppo tra tutti gli attori pubblici e privati a livello regionale, e quindi nazionale. La regione Emilia – Romagna nella scorsa legislatura ha fondato questa politica su di un ‘Patto per il lavoro’, coinvolgendo enti locali, associazioni imprenditoriali e sindacali, università e scuole. Un accordo di sistema con cui le diverse parti sociali assumevano reciprocamente l’impegno di definire i propri comportamenti e delineare i propri investimenti concorrendo a rilanciare l’economia (valore aggiunto annuo, andamento del tasso di occupazione, …) e consolidare la società regionale. I risultati sono stati decisamente positivi, e se si è potuto fare questo una volta, lo si può fare almeno altre 19 volte con percorsi adeguati alle specificità economiche, sociali, politiche dei diversi territori italiani”.
“Tra le diverse aree di intervento, nel ‘Patto per il lavoro’ della Regione Emilia – Romagna c’è un ambizioso programma di sperimentazione dell’accompagnamento degli studenti al lavoro, partendo dall’istruzione universitaria e dell’alta formazione, con l’obiettivo di mettere a punto un dispositivo atto alla prevenzione e al superamento dei periodi di inattività nella delicata estensione temporale tra la fase conclusiva degli studi e la ricerca del primo lavoro. Questo, nell’ottica che affrontare il problema dei neet (e utilizzare al meglio le disponibilità normative ed economiche del programma ‘Garanzia Giovani’) significhi anzitutto mettere a punto progetti e iniziative … per evitare che i neet si producano.
Il recente monitoraggio del Patto ne ha aggiornato gli impegni con il ‘Focus Giovani Plus’; e tra i campi di intervento più direttamente interessati alle prospettive lavorative dei giovani, l’attenzione viene rivolta a due in particolare: 1) l’Alternanza scuola – lavoro, con l’istituzione, d’intesa con l’agenzia Anpal del Ministero del lavoro, di un apposito ruolo integratore di supporto ai percorsi degli studenti: il ‘tutor per l’alternanza’; 2) i Percorsi di inserimento lavorativo, con il passaggio dalla fase sperimentale alla implementazione del Programma di ‘accompagnamento delle transizioni dei giovani dalla formazione universitaria al lavoro”.
“Il valore dei Patti regionali per il lavoro non è misurabile solo per gli effetti, positivi, a livello locale (creare valore aggiunto e lavoro di valore), ma dalla capacità di stimolare potenzialità di interesse generale: suscitare energie, valorizzare le competenze di un territorio, attivare partecipazione dei lavoratori e dei cittadini”.
Il Patto regionale può rappresentare uno strumento ad alta partecipazione territoriale in grado di affrontare e trovare soluzioni ai problemi economico sociali presenti nelle varie articolazioni territoriali (e, tra i primi, la quantità e qualità del lavoro necessario, richiesto e offerto) utilizzando ogni risorsa e ogni canale disponibile.
Ma il caso del Patto dell’Emila Romagna, con il programma regionale dedicato ai ‘Percorsi di inserimento lavorativo’, al di là dell’obiettivo immediato di consolidare l’occupabilità dei giovani della Regione in uscita dagli studi, rappresenta anche una chiara politica di valore nazionale di prevenzione del fenomeno dei neet, in quanto sollecita e incentiva (con modalità progettate e sperimentate) la realizzazione di un’offerta di percorsi finalizzati a facilitare e accompagnare le transizioni dei giovani dalla formazione al lavoro, prima del completamento del ciclo di studi.
Il Patto regionale può anche rappresentare, quindi, in un’ottica di maggiore flessibilità e concretezza progettuale e realizzativa, un ambito di sperimentazione e messa a punto di politiche e soluzioni innovative di interesse generale.
3.4 La Politica Economica Nazionale
“Le politiche pubbliche non devono limitarsi alle modifiche legislative o regolamentari del contesto istituzionale, ma curare soprattutto le modalità di attuazione delle istituzioni esistenti e investire nelle amministrazioni pubbliche che quelle politiche sono chiamate ad attuare. Servono, sono possibili, vanno favorite azioni collettive di sindacati, reti di lavoratori, organizzazioni di cittadinanza, comunità di innovatori, movimento che redistribuiscano potere decisionale, producano innovazione, promuovano, pretendano e animino le politiche pubbliche”.
“In fasi storiche complesse il Paese è riuscito a riemergere dalle sue difficoltà attraverso una forte convergenza tra interessi inizialmente differenti che si sono confrontati e anche formalmente ricomposti in accordi strategici, soprattutto quando sono state coinvolte le forze economiche e sociali organizzate. … E in un accordo nazionale di questo tipo devono essere compresi anche gli indirizzi per creare nuovo lavoro, specialmente giovanile, anche attraverso una nuova forma generale e diffusa di ‘servizio civile’ retribuito, orientato all’emergenza sociale a partire dai bisogni degli anziani …”.
Nelle fasi di crisi generale e negli episodi di crisi settoriali o aziendali gli ‘ammortizzatori sociali’ rappresentano lo strumento di intervento di prima istanza per chi perde il lavoro; la condizione dei giovani inoccupati, che si aggrava nei momenti di crisi ma che è costantemente presente nella struttura del mercato del lavoro, non dispone di analoghi ammortizzatori consolidati.
Ma soprattutto, di tali ammortizzatori, resta tuttora assente (o incerta, confusa e comunque inadeguata) la “componente attiva” che deve portare all’inserimento lavorativo.
Al di là degli “interventi indiretti” mobilitabili, tra i quali il sostegno alle varie modalità possibili di ripartizione del lavoro disponibile nelle situazioni sfavorevoli all’offerta, la politica degli altri paesi (ed in particolare dei “più ricchi”) è stata quella di investire ingenti risorse e personale per aiutare chi cerca lavoro; ma l’Italia ha una infrastruttura debole di servizi per il lavoro ma anche seri ostacoli a realizzare un investimento significativo, “alla tedesca”.
La via italiana può essere quella di “istituire” e finanziare (con oneri certamente più sostenibili ed effetti pratici più verificabili) l’integrazione tra servizi di orientamento in uscita dalle scuole e università e servizi di inserimento al lavoro. Gli esempi di applicazione virtuosa di percorsi di questo tipo, sparsi sul territorio nazionale, e le potenzialità rese generalmente disponibili dallo stesso programma Garanzia Giovani (o programmi simili), possono rappresentare una sufficiente base di studio e progettazione di una prima iniziativa nazionale.
NOTE:
[1] L’elaborato che qui viene presentato in prima stesura è stato predisposto, per l’uscita della presente edizione 2020 dell’Annuario Socio Economico del CDS, a cura della Redazione dell’Annuario stesso. L’impostazione introduttiva è stata proposta da Andrea Gandini e Gaetano Sateriale e condivisa dalla Redazione.
[2] Gli accordi sindacali e le modalità di gestione partecipata del progetto prevedevano procedure condivise e contrattate per la selezione dei giovani in entrata e le possibilità del passaggio del rapporto di lavoro a tempo indeterminato al consolidarsi degli organici a seguito dell’incremento delle produzioni e del complesso delle attività aziendali. Per una documentazione dettagliata dell’iniziativa, cfr. A. Gandini, P. Foschi, R. Flammini, Apprendere lavorando, Ed. Diabasis, 1999
[3] Da questo assunto derivava la proposta di includere nel piano di studi il primo anno di lavoro (cioè una prima esperienza che “integra e completa” gli studi) nella convinzione che in tal modo si potesse riuscire a completare il percorso integrato (studio e primo lavoro) in 4 anni, quando mediamente ce ne volevano almeno 5 per concludere il primo triennio di laurea e trovare un primo lavoro. Inoltre, si sosteneva, la contaminazione tra studi e pratica lavorativa, avrebbe accresciuto l’apprendimento e l’occupabilità dei laureandi, anche per coloro che non trovavano subito il lavoro, in quanto il percorso formativo così integrato veniva a rappresentare una “dote” in termini di orientamento e accompagnamento per l’entrata nel mercato del lavoro. E, parallelamente, l’esperienza dei laureandi guidata e monitorata dai docenti e dalle strutture di ateneo, poteva rappresentare un prezioso strumento di feed back per la didattica e per la modulazione dei piani di studi.
Progetti e sperimentazioni ispirate in tutto o in parte a questo assunto largamente condiviso hanno avuto luogo successivamente e con successo in altri atenei, e tra questi: l’indirizzo specifico strutturato sul modello PIL nel Corso di Laurea di Scienze Politiche dell’Università di Bologna dall’a.a. 2011- 2012 e, più recentemente, il Progetto LM+ all’Università di Pavia strutturato su 5 corsi di Laurea Magistrale e il Progetto Ulisse dell’Università Statale di Milano. In precedenza, percorsi PIL veri e propri erano stati sperimentati all’Università di Verona (Progetto PSILA) e del Molise.
[4] Sull’importanza della scelta reciproca e sull’oggetto dello scambio nel mercato del lavoro, il Premio Nobel per l’economia Alvin Roth afferma che ci sono mercati in cui è il prezzo a determinare quasi tutto, e ce ne sono altri – come il mercato del lavoro – che sono basati sul matching e sulle relazioni personali. … I mercati on line sono veloci, ma per alcuni aspetti non sono sicuri e degni di fiducia; si possono usare degli algoritmi (che includono i voti, i risultati formali di un colloquio), ma il trasloco su internet di interi mercati può creare una congestione, difficile da gestire. E ancora: …risulta difficile distinguere i candidati qualificati da quelli che lo sono meno e, ancora più difficile, capire quali, tra i migliori, siano realmente interessati all’incarico in questione.
[5] Tipico il caso, ad esempio, che per una posizione lavorativa nell’ambito del controllo di gestione, per imprese “simili” per settore, dimensione, orientamento allo sviluppo, la scelta possa cadere, alla fine dei colloqui individuali, sul laureando in Economia, o Ingegneria, o … in Scienza della comunicazione.
[6] La divisione del lavoro tra questi enti (scolastici, universitari e dei servizi per il lavoro pubblici e privati), che pure può essere garanzia di efficienza, trova il suo limite di efficacia se i singoli attori “si difendono” all’interno dei propri confini. Senza progetti e strumenti di “integrazione” tra le attività dei diversi attori il processo corre il rischio di non sortire alcun effetto significativo.
Una proposta pratica a cominciare dal rapporto tra le Università e i Centri per l’impiego potrebbe essere quella di rilanciare e implementare la fruizione di uno strumento ideato e proposto a livello di UE, il “diploma supplement”, che raccoglie tutte le esperienze formative e di lavoro dello studente e, dal lato dei Centri per l’impiego, procedere finalmente con la messa a punto, formalizzazione e aggiornamento del “libretto formativo”. In modo da consentire a queste diverse (ma confinanti) “istituzioni della transizione” di dialogare e cooperare. Il lavoro da fare è già noto e il patrimonio di esperienze esistenti aspetta solo di essere analizzato, selezionato e portato ad obiettivo comune.
[7] In conclusione va anche tenuto presente (e non solo per dovere di cronaca) che l’ampia e consolidata sperimentazione ferrarese sui percorsi di transizione dallo studio al lavoro non prende avvio da una “pensata” di vertice e da un progetto assemblato “a tavolino”, ma dalla naturale e condivisa convergenza di interessi della direzione aziendale e della rappresentanza dei lavoratori, che avevano già collaudato nella grande fabbrica soluzioni “avanzate” nella fase conclusiva di una vertenza aziendale per certi tratti drammatica, caratterizzata da posizioni ed episodi fortemente conflittuali nel corso della ristrutturazione del settore petrolchimico nazionale dei primi anni 80.
Di quelle soluzioni, in diversi casi anche anticipatorie di una svolta nelle relazioni industriali che avrebbe caratterizzato il post vertenza, ne segnaliamo alcune tra le più significative: i contratti di solidarietà “espansivi” con il ricorso alla rotazione della cassa integrazione; la gestione del turnover con la combinazione di prepensionamenti, cassa integrazione e formazione continua per il personale in organico e training di nuovi assunti, supportato anche dalle collaborazioni di professional in uscita; l’assoluta e totale affermazione delle pari opportunità che ha portato per la prima volta all’assunzione e all’inserimento di personale femminile anche negli impianti e laboratori a ciclo continuo H24. Tutte soluzioni, assolutamente tabù nella fase iniziale della vertenza quando la “scure” dei tagli di un terzo degli organici non poteva che provocare uno speculare rifiuto delle parti ad “entrare nel merito”, che però si sono fatte strada quando lo scontro aveva esaurito la sua funzione di verifica dei rapporti di forza ed era giunto il momento che “chi aveva più filo doveva tessere la tela”. E a quel punto le parti si sono fidate, potremmo dire, in una perfetta situazione di “dilemma del prigioniero”.