Come ho sottolineato in altra occasione, quando Francesco, Ciccio, Ottanà mi disse di avere scritto un libro di poesie sono rimasto sorpreso poiché non immaginavo che un amico che conoscevo per rapporti di lavoro nella stessa industria chimica nutrisse aspirazioni letterarie, legato come era alla tecnica nel cui ruolo ben si compenetrava per serietà ed impegno.
Un ruolo che si pensava fosse l’unico esclusivo interesse, ma che invece ho scoperto era soprattutto un impegno di lavoro.
Nella sua quotidianità Francesco nutriva aspirazioni creative che si sono estrinsecate nel fare il poeta, il poeta della sua terra, la Calabria, che è poi anche la mia.
E la prima cosa che lega Ottanà alla sua terra sono gli affetti, e ad essi rivolge l’introduzione, quella che si può ritenere la prima poesia del libro “E ‘stu me’ cori”, cioè “E questo mio cuore”.
Introduzione ma anche dedica rivolta alle persone che gli hanno voluto bene e che gli hanno resa meravigliosa la giovinezza, dedica ai suoi figli affinché non dimentichino le radici della propria famiglia. Ma anche dedica agli amici, Enzo, Tito, Santo che gli sono stati vicini nella nascita del libro di poesie.
La chiave del libro è la nostalgia, nostalgia che è soprattutto ricordo, sensazioni, memorie di persone, esorcizzazione di un destino che lo ha costretto ad allontanarsi dalla terra natia.
Una nostalgia che non si vergogna di esprimere anche se teme che qualcuno gliela possa rimproverare e chiedergli perché lo fa.
A queste persone risponde molto chiaramente nella sua premessa al libro: “L’ho fatto perché le radici succhiano ancora di quell’umore villese (Francesco è nato a Villa San Giovanni, sulla sponda calabrese dello Stretto di Messina), quell’umore villese che mi ha costruito per quello che sono, l’ho fatto perché le cose e le persone, radici di questo mio essere, meritano di non perdersi nell’oblio, l’ho fatto perché basta una piccola pioggia leggera ad aprire orizzonti di commozione e di affetto, l’ho fatto perché il paese in cui sono nato è, certamente, il luogo delle stelle, cui non basta il cielo da dove fuggono alla ricerca del bello assoluto”.
In questa ultima frase Ciccio Ottanà rivela già il suo animo di poeta. E questi palpiti del cuore li ha espressi in due grandi capitoli: quello della nostalgia e quello dei brevi ritorni.
La nostalgia degli amici del luogo natio con i quali passava molte notti in compagnia a discutere, guardando le stelle o riparandosi dalla pioggia sotto un balcone, il ricordo della primavera calabrese che sa di magia antica o il ricordo della Pasqua con le sue tradizioni religiose e gastronomiche (la pasta al forno, il salame e la soppressata, la ciambella con le uova, il mitico “cuddhuraci”) e poi l’estate assaporata dal suo balcone dove, ricorda, arrivava un profumo di fioritura di limoni o vissuta tra passeggiate in cui sui chiacchierava e si corteggiavano le ragazze, il ricordo del Natale con le musiche degli zampognari (i ciarameddhari) e l’odore della cena a base di crespelle, murene, arance, mandarini, torrone e fichi secchi e il Presepe con Gesù attorniato dagli angioletti.
Forte è anche il ricordo dello Stretto con il suo mare verde, con le sue notti stellate, il passaggio dei pescespada che si comportavano come due fidanzati in amore incuranti di essere fiocinati, le mangiate di costardelle, le notti in barca sul mare.
Ma anche il ricordo di momenti drammatici come il terremoto o di momenti felici legati al folclore: i cantastorie, la sfilata del Gigante e della Gigantessa, un’occasione di grande festa.
Ogni tanto in Francesco si fa strada lo scetticismo: quello verso la realizzazione del Ponte sullo Stretto, diventata una favola perché se ne parla, se ne parla, ma non viene mai realizzato.
Nel ricordo del nostro poeta sfila poi il variopinto mondo delle comari e dei compari impegnati in continui pettegolezzi e nell’intrigarsi dappertutto, di personaggi come i raccontaballe, i giocatori al lotto o quelli a carte.
Figure rese con spirito d’ironia ma anche di affettuoso coinvolgimento.
I ricordi di episodi legati all’amore: dalla “fujtina”, cioè la fuga dei giovani per costringere i genitori ad accettare il matrimonio, all’amico che fa da “candela”, da palo, per facilitare gli incontri galanti di due innamorati, o alla prosopopea della madre che reputa sua figlia degna solo di un re, o gli appostamenti alle ragazze speranzosi che si potessero accorgere dell’interesse sentimentale che si nutriva verso di loro.
Tutto un mondo superato ma che è vivo nel ricordo giovanile di Cicco Ottanà, come in ognuno di noi, come segno di un costume che ha caratterizzato la giovinezza e che oggi ha altri costumi ed altri riti.
Un mondo che è cambiato, ma non cambia nel nostro poeta la comunanza con il luogo dell’infanzia che sarà sempre nel suo cuore.
Ricordi che lo fanno sobbalzare solo se nella città in cui ora vive, Ferrara, gli capita di vedere un autobus targato RC, cioè Reggio Calabria e con la scritta di una Società di Villa San Giovanni.
E allora Ciccio si rifugia nel mondo delle favole, fiabe note che lui reinventa in dialetto calabrese, facendo loro acquistare il sapore delle tradizioni locali e fiabe inventate.
E si rifugia anche nei sogni, nella fantasia e riemergono alla memoria immagini di un settembre malinconico ma pieno di nostalgia e tante altre che egli esprime sotto forma di metafore.
Sono ricordi che come un’ortica, una medusa, un peperoncino, ormai lo pungono e gli portano un certo prurito che nessun medico può curare e Ciccio capisce che è ora di fare un viaggio nella sua terra e la trova cambiata.
Per rievocare il passato, la giovinezza, ripercorre una “stratella” e la ritrova come un salotto, ritrova la sua contemplazione del mare e il suo colloquio con lo scirocco, ma anche il monumento ad una bomba, ricordo della guerra che gli riporta alla mente allarmi e corse verso i rifugi, fatti ed emozioni vissute al lido “Cenide” che s’affacciava sullo Stretto, i mitici “mostri” di Scilla e Cariddi, oggi inquinati anche loro. Cose trasformate, così come il posto denominato “Croce Rossa”, una balconata sullo Stretto. E si rincuora bevendo una metaforica “scirubetta”, un bicchiere di acqua di lontananza, mescolato col vino della breve presenza.
Ma è ora di ritornare alla realtà, va al Camposanto a visitare tombe amiche e pensa che quando sarà ora di morire, per esorcizzare una nostalgia eterna, vorrebbe portarsi dietro tanto sole, tanto vento e mare verde, con la vista del panorama che si gode da quel Camposanto, che possano vincere le nebbie della città in cui ora vive.
Ciccio va al Museo di Reggio Calabria a vedere i Bronzi di Riace e la maschera del Filosofo e trova appagamento ed incanto.
Stesse sensazioni che prova visitando Scilla con la sua Chianalea, piccole strade con le case sul mare o il Castello e la rinomata Marina.
È ora di tornare nella città in cui vive con la famiglia e lo fa con un saluto allo Stretto di Messina ed al suo paesaggio, alla vecchia casa con i balconi rosa, alle luci di notte, alla nave traghetto, alla stazione, al ponte sul torrente, luogo di ritrovo con i vecchi amici, cosciente di non ritornare a vivere più in quella terra perché è aperta una nuova storia della sua vita.
E conclude invocando la benedizione di Dio.
La lettura del libro di poesie di Ciccio Ottanà mi ha riportato alle mie origini ed alla mia infanzia, mi ha fatto fare un bagno nel mio dialetto che da molti anni non facevo, non lo facevo nemmeno quando mi è capitato di ritornare in quei luoghi perché gli amici di un tempo non li ho più ritrovati, forse emigrati come me chi sa dove per ragioni di lavoro.
Sensazioni che, sono sicuro, anche voi proverete.
Per quanto mi riguarda ringrazio Ciccio Ottanà per avermi riportato alla memoria le emozioni della giovinezza, gli umori di una terra che malgrado la lontananza non si può dimenticare, non solo per nostalgia ma perché mi ha dato quell’humus che mi accompagnerà per tutta la vita.
A Ciccio Ottanà sono venuti ringraziamenti da parte del Sindaco del suo Paese per l’omaggio che ha voluto fare a quella terra, ed il Consiglio Comunale all’unanimità ha deliberato di iscrivere il suo nome nell’albo d’onore della Città, cosa che è stata fatta il 24 giugno scorso, giorno del Santo Patrono durante una solenne cerimonia.
E noi, congratulandoci, ce ne rallegriamo vivamente.