Se la plastica e, in particolare, la famiglia delle poliolefine, come abbiamo visto non è niente altro che del gas solidificato, cioè tessuto in qualche modo attraverso un processo di polimerizzazione, perché non immaginare di disfare…questo “tessuto-non-tessuto” di Penelope per ritesserlo nuovamente? Perché ricorrere (solo) al petrolio per ottenere le materie prime per produrre della plastica quando le materie prime sono già presenti e disponibili nelle discariche, lungo i fiumi, sulle isole di plastica?
Ogni anno in Europa sono prodotti circa 26 milioni di tonnellate di plastica e solo il 30% di questi vengono raccolti e avviati al riciclo.
Nel 2016 solo in Italia sono stati prodotti 5 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica e solo il 24% è stato avviato al riciclaggio. A questa quota bisognerebbe aggiungere quella frazione che finisce nei rifiuti urbani indifferenziati che ISPRA [8] stima intorno al 16.5%.
Il 41% di questo ammontare è dovuto alla plastica usata per l’imballaggio: il tipico prodotto finito “da usa e getta” che entra velocemente nel ciclo dei rifiuti e che, come abbiamo detto precedentemente, è principalmente costituito da polimeri formati solo da idrogeno e carbonio, le poliolefine.
Di riciclo meccanico si parla da molto tempo e già sono in funzione filiere ormai consolidate che permettono di rigenerare il rifiuto plastico solido attraverso operazioni unitarie di smistamento, riduzione, lavaggio e eventuale riestrusione del polimero rigenerato. Dunque sono già a disposizione dati abbastanza definitivi che ci dicono che tale riciclo, da solo, non è sufficiente per raggiungere gli ambiziosi obiettivi posti da Bruxelles all’industria delle materie plastiche.
Sull’onda della nuova Plastics Strategy varata dalla Commissione Europea, dopo anni di colpevole quiescenza, si ricomincia a parlare di riciclo chimico o come sarebbe più propriamente corretto dire di recupero molecolare: riportare cioè i rifiuti plastici al loro stato originario di monomero – i famosi building blocks – ottenuti dalla lavorazione degli scarti petroliferi. In questo modo sarebbe in teoria possibile riutilizzare in un’ottica circolare anche i rifiuti eterogenei, multimateriale o contenenti additivi che ne rendono poco conveniente il riciclo per via meccanica.
Questi processi vanno sotto il nome di depolimerizzazione, pirolisi o gassificazione e rendono perfettamente le idee di sostenibilità e circolarità attraverso la costruzione di una filiera virtuosa che dal rifiuto raccolto (per mare e per terra) passa per la valorizzazione dello scarto plastico e il recupero delle molecole con le quali la plastica del passato era fatta e quella del futuro verrà rifatta.[10]
Molti players importanti si sono già attivati nel perseguire questa idea del recupero molecolare o come è più conosciuta del riciclo chimico. Ad esempio il gruppo tedesco BASF ha lanciato il programma ChemCycling che è un processo basato sulla pirolisi di rifiuti plastici eterogenei, difficili da trattare per via meccanica e che trasforma gli scarti in oli sintetici dai quali recuperare etilene e propilene per riavviare il ciclo.
Anche il gruppo britannico Ineos è impegnato in diversi progetti di riciclo chimico, con particolare attenzione al trattamento di rifiuti stirenici, dove ha attivato partnership sia con altri produttori, sia con università e centri di ricerca. Ineos Styrolution non è però l’unico a studiare il riciclo chimico di polistirene mediante depolimerizzazione di rifiuti post-consumo : AmSty e Agilyx hanno dato vita alla joint-venture paritetica Regenyx, che utilizzerà la tecnologia di depolimerizzazione messa a punto da Agilyx per ottenere stirene monomero liquido. Regenyx rileverà l’impianto pilota di Agilyx a Tigard, nello stato dell’Oregon (USA), con capacità di conversione pari a 10 tonnellate al giorno di rifiuti non altrimenti riciclabili per via meccanica.
Riciclare in closed-loop rifiuti plastici da imballaggio difficili o impossibili da trattare per via meccanica è anche l’obiettivo del progetto avviato da Sabic, Unilever, Vinventions e Walki Group. La tecnologia individuata dai partner è la conversione termochimica in assenza di ossigeno (TAC, Thermal Anaerobic Conversion) sviluppata dalla britannica Plastic Energy, dalla quale si ottiene Tacoil, un olio sintetico che Sabic immetterà nell’impianto di Geelen (Olanda) per ottenere materie plastiche che saranno fornite ai tre partner; questi, a loro volta, utilizzeranno le resine per produrre imballaggi destinati ad uso alimentare e non: Vinventions produrrà tappi sintetici per vino e Walki beni di consumo. Nei piani di Sabic e Plastic Energy c’è la costruzione di un impianto in Olanda, che potrebbe entrare in marcia nel 2021.
Tutti questi processi partono dal riscaldamento dei rifiuti plastici in assenza di ossigeno (evitando in questo modo la loro combustione), che provoca una rottura delle catene polimeriche. Si ottiene così un vapore saturo di idrocarburi che, una volta condensato, può alimentare un cracker al posto di materie prime fossili per la sintesi di intermedi per la produzione di nuove materie plastiche, mentre la frazione gassosa viene impiegata per produrre l’energia necessaria agli impianti.
Sono scesi in campo anche colossi americani come Dow ed Eastman. Il gruppo chimico statunitense Dow si prepara a introdurre sul mercato plastiche ottenute in parte da materie prime provenienti da pirolisi di rifiuti plastici e, a questo scopo, ha siglato un accordo con l’olandese Fuenix Ecogy per la fornitura di feedostck destinati al polo di Terneuzen, nei Paesi Bassi. Fuenix ha brevettato un processo di pirolisi capace di convertire materie plastiche eterogenee da imballaggi in un olio che può sostituire alcune materie prime (nafta, paraffine, LPG). L’azienda olandese sostiene che con una tonnellata di rifiuti si possono ottenere circa 700 chilogrammi di polimero rigenerato con le stesse caratteristiche di quello sintetizzato con materie prime vergini, anche per uso alimentare. Questo progetto rientra nell’impegno preso da Dow di incorporare almeno 100.000 tonnellate di plastiche riciclate nei materiali destinati al mercato europeo entro il 2025.
Eastman si sta invece muovendo nel riciclo chimico, mediante depolimerizzazione via metanolisi, dei rifiuti a base poliestere di scarsa qualità, difficilmente recuperabili per via meccanica e destinati quindi a essere avviati a discarica o all’incenerimento. Il gruppo statunitense è impegnato in uno studio di fattibilità tecnica sulla progettazione e costruzione di un impianto di metanolisi su scala industriale, che potrebbe entrare in funzione entro 24-36 mesi dalla conclusione degli accordi con partner della filiera interessati ad acquistare il materiale così rigenerato.
Sul fronte della depolimerizzazione del PET, si segnala anche il processo LuxCR proposto da DuPont Teijin Films. L’obiettivo è trasformare i flakes di PET provenienti da sfridi o da rifiuti nel monomero di partenza indistinguibile da quello vergine, da cui ottenere nuovo poliestere destinato all’estrusione di film PET biorientato (BOPET) per applicazioni nell’ imballaggio, anche alimentare. Questa tecnologia è in grado di rimuovere eventuali contaminazioni attraverso una combinazione tra filtrazione del polimero e del monomero ed estrazione mediante vuoto per alcune ore con temperature tra 270 e 300 °C. Il gruppo statunitense sta valutando altre applicazioni nell’ambito di etichette, pannelli solari, carte d’identità.
E nel nostro Paese? Nel famoso quadrilatero della chimica?
HoopTM, con il cerchio quale simbolo, è il nome scelto da Versalis, società chimica di Eni, per lo sviluppo di una nuova tecnologia per riciclare chimicamente i rifiuti in plastica. Versalis ha firmato un accordo di sviluppo congiunto con la società italiana di ingegneria Servizi di Ricerche e Sviluppo (S.R.S.), proprietaria di una tecnologia di pirolisi che verrà sviluppata ulteriormente per trasformare i rifiuti in plastica mista, non riciclabili meccanicamente, in materia prima per produrre nuovi polimeri vergini. Facendo leva sulle proprie competenze tecnologiche e industriali, Versalis realizzerà un primo impianto da 6.000 ton/anno previsto a Mantova, con l’obiettivo di un successivo e progressivo passaggio di scala iniziando dai propri siti produttivi nazionali.
LyondellBasell sta terminando la costruzione presso il Centro Ricerche Giulio Natta di Ferrara di un impianto pilota per il riciclo molecolare di rifiuti plastici post-consumo basato su una tecnologia sviluppata in collaborazione con l’Istituto di tecnologia di Karlsruhe (KIT), in Germania. Il sito italiano è stato scelto dalla multinazionale statunitense per la sua lunga storia di ricerca e sviluppo nel settore dei catalizzatori Ziegler-Natta e delle tecnologie per la produzione di poliolefine della quale è leader mondiale. .
Tornando al nostro punto di vista antropologico possiamo concludere che questi nuovi approcci di recupero molecolare non solo avrebbero lo scopo di chiudere un cerchio ma anche di velocizzare un certo processo culturale [11] utile a riconsiderare concetti di naturale e artificiale e soprattutto a ripensare il rapporto che c’è tra… l’organico e l’artefatto tra l’idea e la forma, temi questi che implicano anche un ripensamento sul lavoro inteso come produzione di qualcosa che va usata e “rifiutata”.
Questo vuol dire che se continueremo a considerare la plastica come il prodotto di un processo produttivo di tipo trasversale allora, ineluttabilmente, quel materiale oggi degradato a scarto ci fronteggerà ( e ci schiaccerà) come un emblematico problema ambientale in un fermo immagine drammatico. Se però la plastica e le sue forme cominceranno a far parte di una nuova visione di processo [12] vale a dire un processo di crescita continuo che coinvolge l’ Uomo, l’Ideatore, il Lavoratore come fossero veri e propri organismi attivi tra materiali attivi, allora anche il nostro rapporto con la programmazione, la produzione, l’uso e il recupero di un oggetto come una “semplice” bottiglia di Plastica o di Bioplastica cambierà in un modo del tutto naturale dunque culturale.
Un tale tipo di processo continuo, definito dall’antropologo britannico Tim Ingold longitudinale, di fatto introduce una corrispondenza tra forze e materiali anziché una trasposizione tra idea e prodotto. Tale modo di pensare-produrre si consegna automaticamente al paradigma di sostenibilità e circolarità e, più sottilmente, a quello di responsabilità perché se (e come) gli organismi crescono, altrettanto faranno gli artefatti e viceversa. In questa nuova prospettiva anche se l’artefice ha in mente una forma , non è questa a creare l’opera finale ma è il coinvolgimento con i materiali a farlo.
Il nuovo punto di vista non solo permetterebbe di inquadrare meglio la “produzione” di materiali come la Plastica e la Bioplastica, evitando quegli oziosi e sterili discorsi tra naturale e artificiale che recentemente hanno coinvolto anche l’origine del virus Sars-CoV-2, ma potrebbe addirittura rivoluzionare lo stesso rapporto tra pensiero e produzione. Tra Società e Lavoro.
Riferimenti
[8] – A. Bratti in Giornate della Ricerca, Pisa 10-11 giugno (2019);
[9] – https://www.european-bioplastics.org/
[10] – https://www.plastix.it/lindustria-delle-materie-plastiche-punta-sul-riciclo-chimico/
[11] – T. Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi, (2001);
[12] – T. Ingold, Making, Cortina Raffaello, (2019).
Immagini
https://cartoonmovement.com/cartoon/plastic-age
https://www.etsy.com/it/listing/222463212/1888-flammarion-incisione-stampa