Quando usiamo il termine Plastica intendiamo raggruppare per semplicità tutta una serie di materiali che vanno sotto il nome più appropriato di polimeri. I polimeri sono composti chimici ad alto peso molecolare costituiti da unità chimiche ripetute (i monomeri) e solitamente vengono classificati in naturali e sintetici.
Solo da questo breve chiarimento dei termini si comprendono due cose : la prima è che a seconda del monomero (o dei monomeri) di partenza si possono costruire, attraverso i cosiddetti processi di polimerizzazione, una vasta gamma di polimeri e quindi di plastiche; la seconda è che, seguendo il nostro approccio antropologico, una classificazione come quella fino ad oggi adottata potrebbe risultare astratta, inutilizzabile e, a volte, persino ingannevole.
I polimeri sintetici sono ottenuti mediante reazioni di polimerizzazione a partire da materiale derivati dal petrolio.
L’industria petrolchimica si basa fondamentalmente sulla lavorazione di scarti, infatti mentre i prodotti “pregiati” ottenuti dalla raffinazione del petrolio greggio sono destinati alla produzione di energia (per es. carburanti e olio combustibile), gli “scarti” come la virgin nafta e i gasoli sono, per così dire, riciclati, nella produzione dei cosiddetti building blocks i componenti base di tutta una serie di materiali.[6] Tra tutti questi materiali polimerici mi soffermerò su quelli più ”semplici” per via delle loro molecole di partenza costituite come sono solo da idrogeno e carbonio. Etilene e propilene, le olefine, sono di fatto un gas inodore e incolore che invece di essere bruciato per produrre calore viene, diciamo così congelato, sotto forma di …plastica per essere utilizzato come IL materiale per le più svariate e versatili applicazioni.
Il loro successo è testimoniato dalla loro diffusione e dalla proporzione in percentuale rispetto a tutti gli altri materiali polimerici: più del 65% dei materiali plastici.
Tutti i presidi sanitari, ad esempio, come mascherine, camici, flaconi, siringhe, chassis di macchinari sanitari sono prevalentemente fatti di questi materiali. Le poliolefine.
Tenendo fede al metodo antropologico adottato vorrei soffermarmi ancora una volta sullo statuto civile di queste due realtà: 1) l’esigenza di sovvertire una situazione sfavorevole, quella degli scarti prodotti dalla raffinazione del petrolio, come abbiamo visto, si è trasformata in una opportunità in diversi settori della nostre forme di vita , anche quelle artistiche e culturali così lontane dalle applicazioni materiali della plastica [7]; 2) Gli scarti costituiti da gas o in termini più tecnici da monomeri che sono serviti a produrre materiali per svariate e alcune irrinunciabili applicazioni, oggi giacciono come scarti (al quadrato) nelle discariche a cielo aperto, lungo i fiumi del nostro pianeta e, addirittura, sono diventati parte del paesaggio, le isole “artificiali”, nei nostri oceani. E il 65% di tutto questo è costituito da poliolefine!
Come è stato più volte ricordato [8] tutti ormai riconoscono le criticità prodotte da un funzionamento tradizionale, direi quasi naturale, della filiera “produci-usa-getta” nei confronti della plastica:
1) Bassi livelli di riutilizzo e di riciclaggio se confrontati ad altri flussi di materiali come la carta il vetro e i metalli
2) Percentuali di smaltimento in discarica e incenerimento ancora elevate
3) Scarsa domanda sul mercato di plastiche riciclate (meccanicamente)
4) Rilascio nell’ambiente di grandi quantità di microplastiche che pongono rischi potenziali per l’ambiente e la salute umana
A questi punti aggiungerei altre due criticità (che, parafrasando, potremmo includere tra gli statuti incivili della nostra analisi antropologica):
5) La scarsa educazione alla conoscenza dei materiali e a tutto quanto consegue relativamente al conferimento e al trattamento degli stessi
6) Un impegno (scientifico e tecnico) non sufficientemente adeguato sulla differenziazione puntuale e specifica del rifiuto plastico.
Affronteremo nel prossimo e ultimo paragrafo il tema del riciclaggio meccanico e chimico delle poliolefine ma prima di concludere la nostra carrellata su quanta plastica abbiamo prodotto e quante plastiche (potenziali) esistono diamo un breve cenno (derogando in parte al nostro impegno antropologico ma solo per un dovere di completezza dell’informazione) alle cosiddette plastiche “naturali” o bioplastiche.
Secondo la definizione data dalla European Bioplastics [9], la Bioplastica è un tipo di plastica riciclabile che presenta una o entrambe le seguenti caratteristiche: 1) deriva da materie prime rinnovabili (materiali di origine naturali); 2) pur essendo di origine sintetica, si degrada in tempi ragionevoli cioè è biodegradabile.
Negli ultimi anni le strategie di ricerca si sono focalizzate sulla cosiddetta chimica verde, che anche nel campo dei polimeri si propone la raccolta e il riutilizzo di rifiuti agro-alimentari per estrarre i “bio” building blocks da utilizzare come materie prime per la produzione di nuovi materiali polimerici sostitutivi (?) dei polimeri tradizionali sia per quanto riguarda le proprietà che le applicazioni.
I materiali polimerici naturali sono già stati ampiamente utilizzati nella storia dell’uomo per ottenere vestiti, cibo, attrezzi, armi, etc.
Qui di seguito sono elencate una serie di sostanze naturali che possono dare vita a materiali polimerici più o meno all’altezza delle plastiche tradizionali in termini di proprietà fisico meccaniche, possibilità di trasformazione e applicazioni anche se limitate per il momento a quelle meno performanti in termini di resilienza e tenuta strutturale: d’altra parte le bioplastiche nascono proprio per essere corruttibili o biodegradabili.
L’amido è estratto principalmente dal mais, ma si può ricavare anche dalle patate, dal riso, dal frumento, dalla tapioca. L’amido in realtà è costituito da una miscela di polimeri che si differenziano non per il tipo di monomero ma per il tipo di legame tra i monomeri. Le bioplastiche basate sull’amido sono un prodotto sviluppato in Italia. Il marchio registrato è il Mater B. Oggi è prodotto anche da molte altre aziende europee e mondiali: Bioplast, etc…La plastica basata sull’amido è usata essenzialmente negli imballaggi e nelle buste per la spesa.
Il cotone contiene il 90% di cellulosa. Il legno ne contiene il 50%. La cellulosa e i suoi derivati sono utilizzati in numerose applicazioni.
La chitina è il componente principale dell’esoscheletro di insetti e crostacei, delle pareti cellulari dei funghi e batteri. È un polisaccaride naturale che può fornire il derivato, il chitosano con il quale è possibile produrre un film biocompatibile resistente, idrofilo e permeabile all’ossigeno. Il chitosano è inoltre usato nella cosmesi come veicolo per farmaci anche antitumorali o come agente flocculante per purificare l’acqua e renderla potabile
Con la polimerizzazione dell’acido lattico ottenuto per via fermentativa dallo zucchero si produce il polilattico ( PLA) che è il polimero biodegradabile attualmente più usato. Gli inchiostri per le stampanti 3D sono in genere costituite da PLA. Il PLA è stabile a condizioni ambientali standard quali quelle normali di tutti i giorni (20°C). Il PLA si degrada per idrolisi a temperature superiori a 65°C ed umidità superiore al 20%, per cui i tempi di biodegradazione possono variare notevolmente in relazione alle condizioni ambientali.
In condizioni di compostaggio ottimali di 65°C e 95% umidità , quali quelle dei normali compostatori industriali, i manufatti in PLA si degradano in 50 giorni. I tempi si allungano a 120 giorni in un compostatore domestico alla temperatura di 40°C.
Ma al termine di questa dovuta carrellata arriviamo sempre alla stessa identica domanda: questi polimeri sono naturali o sintetici? Non potrebbe essere che questa “qualità” andrebbe attribuita più che al materiale in sé alla sua funzione? Il titanio utilizzato per la costruzione di un orologio o per quella di una protesi del ginocchio non sembra assumere…atmosfere differenti?
E in cosa è diversa la biodegradabilità di una plastica tradizionale rispetto ad una bioplastica se non nel fattore tempo e nei sottoprodotti che ne potrebbero derivare? Già perché per garantire le trasformazioni di queste bioplastiche alle temperature necessari e per estendere o rendere durature alcune delle loro proprietà, ad esse si dovrà aggiungere un opportuno pacchetto di additivi (p.es. antiossidanti, cariche minerali, nucleanti, etc…) rendendole probabilmente meno bio di quello che strutturalmente promettono d’essere.
Tutte questioni come si vede ancora una volta legate a quella che abbiamo imparato a trattare come una trappola culturale e che ci porta quasi istintivamente a distinguere tra biologia e storia, natura e cultura. Naturale e sintetico.
Paradossalmente la incorruttibilità dei polimeri sintetici come il polietilene o il polipropilene garantisce qualcosa che di questi tempi abbiamo imparato ad essere fondamentale: la (rin)tracciabilità.
Io posso sapere con certezza quante e dove sono le discariche e le isole prodotte con la plastica del passato. Posso raccogliere questo materiale, differenziarlo, trattarlo adeguatamente e trasformarlo , vedremo tra breve come. Certamente non posso sapere e non è stata ancora messa a punto una metodologia certa che possa monitorare la quantità e qualità dei prodotti di decomposizione di bioplastiche nell’acqua e nel suolo. Un problema non da poco per il prossimo futuro delle nuove plastiche.
Riferimenti
[6] – D. Marazza, Ecoscienza, n. 4, (2016);
[7] – S. Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo, (2019);
[8] – A. Bratti in Giornate della Ricerca, Pisa 10-11 giugno (2019);
[9] – https://www.european-bioplastics.org/
Immagini
https://cartoonmovement.com/cartoon/plastic-age
https://www.etsy.com/it/listing/222463212/1888-flammarion-incisione-stampa