Riportiamo, diviso in tre parti, un testo di Giuseppe Ferrara con il quale l’autore richiama alla memoria la precisa collocazione e funzione che la plastica ha avuto, ha e potrebbe avere nella nostra vita o più esattamente nelle nostre “forme di vita”.[1]
Nel primo capitolo il tema è affrontato con un approccio di tipo antropologico (L’Antropocene: l’età della plastica), nel secondo capitolo si passano in rassegna le plastiche (Tanta plastica. Quante plastiche) e nel terzo capitolo l’autore immagina di disfare…questo “tessuto-non-tessuto” di Penelope per ritesserlo nuovamente (Dalla discarica al nuovo prodotto (o al vecchio monomero): il riciclo meccanico e il recupero molecolare).I tre capitoli saranno pubblicati in successione nelle prossime settimane.
1 – L’Antropocene: l’età della plastica
Nel preparare questo intervento sulla Plastica mi sono riproposto un approccio il meno accademico possibile e quindi tra tutte le discipline che avrebbero potuto o dovuto illustrare lo sviluppo e il futuro di questo materiale, ho pensato di utilizzare quella meno accademica: l’antropologia.
Il metodo antropologico (se di metodo possiamo parlare per una disciplina appunto così antiaccademica) consiste nella semplice descrizione dello statuto civile di quelle realtà che scienziati, economisti, filosofi, ambientalisti etc… tendono costantemente a idealizzare o demonizzare o, più in generale, solo a contabilizzare. Secondo questo criterio proverò a fare questo: richiamare alla memoria la precisa collocazione e funzione che la plastica ha avuto, ha e potrebbe avere nella nostra vita o più esattamente nelle nostre “forme di vita”.[1]Quello su cui la maggior parte degli antropologi contemporanei concorda è l’impatto globale che la diffusione e l’invasività delle attività umane hanno avuto sulla natura. È però da troppo lungo tempo ormai – e ancora oggi per molte persone – che con la parola natura si è inteso e si intendono indicare tutte le realtà e i fenomeni esistenti non prodotti dall’uomo. Secondo questo punto di vista la plastica, dunque, non sarebbe un prodotto naturale. Eppure è del tutto evidente che questa restrizione a fenomeni (e “oggetti”) non prodotti dall’uomo pur sembrando una “… indicazione chiarissima risulta invece …semplicemente troppo chiara. Infatti essa pone subito un primo elementare problema: un intervento sulla natura fatto da un uomo, da un animale o perfino, da una pianta, è ancora un atto naturale o è un atto sulla natura?” [2]
L’uomo che estrae petrolio dalla Terra o che produce un materiale sintetico, il castoro che forma una diga di rami, la pianta che produce sintesi clorofilliana, operano interventi sulla natura o fanno azioni naturali? Detto in altre parole quale è il confine tra naturale e artificiale?
Da un punto di vista antropologico le classificazioni come queste che oppongono natura e cultura, biologia e storia, organismo e artefatto sono talmente semplicistiche da risultare astratte ed inutilizzabili, in quanto la natura è di fatto una rete di trasformazioni vitali e non un insieme di cose inanimate. A questo punto dunque la questione si sposta su un altro piano: se la natura è una rete incessante di trasformazioni è lecito, allora, ogni tipo di trasformazione? Per esempio i processi per ricavare energia dal petrolio con tutta la moltitudine di materie prime derivanti dalla sua raffinazione e tutti quegli altri processi successivi che consentono la sintesi di elementi primari quali basi molecolari per materiali sintetici (definiti… sinteticamente “Plastica”); tutti questi processi di trasformazione, dunque, possono essere detti naturali come quelli con cui, per esempio, da un bosco si ricava legname da costruzione o da una coltura estensiva in terreni disboscati, barbabietole da zucchero?
In linea di principio queste trasformazioni sono tutte equivalenti tra loro e tutte, in grado diverso, necessariamente, portano alla distruzione/rigenerazione di vita animale e vegetale sul pianeta Terra! Tra queste trasformazioni vi sarebbe solo una differenza di velocità (e accelerazione) nell’attuazione di una “piccola catastrofe” e del suo esito più o meno esteso.
Quello che gli antropologi affermano con estrema semplicità è che con i progressi della scienza e della tecnica moderna la Storia dell’uomo ha per così dire invaso la Natura (compresa quella dell’Uomo): pervenuta al massimo di questo progetto tecnico-scientifico di controllo e dominio sulla natura, la specie umana comincia a rendersi sempre più conto di quanto lei stessa dipenda da questo controllo e da questo dominio rischiando addirittura di venirne controllata e imbrigliata a sua volta. La Plastica, come vedremo, rappresenta un caso emblematico di tutto questo: in un’ottica di sviluppo lineare e di una fin troppo mitizzata e ingenua idea di progresso, l’Uomo non è stato in grado di contemplare e com-prendere tutti gli effetti di queste trasformazioni e le inevitabili retroazioni che si sono rivelate capaci – come “plasticamente” (sic!) documentato dalle immagini di discariche e isole – di compromettere in un breve periodo (circa 70 anni) la stessa sopravvivenza dell’eco-sistema.
Per definire questa fase spesso si ricorre alla locuzione: era dell’Antropocene che è stata introdotta dallo studioso olandese Paul Crutzen [3] esperto di chimica dell’atmosfera e vincitore del premio Nobel nel 1995 per i suoi studi sulla riduzione dello strato di ozono nella stratosfera. Secondo Crutzen l’alterazione della composizione dell’atmosfera, soprattutto l’aumento di anidride carbonica, era tanto pronunciata e potenzialmente densa di conseguenze per la vita sulla Terra da portarlo a concludere che fosse iniziata una nuova fase della storia del pianeta, durante la quale il genere umano si era imposto come una seria minaccia sull’ecologia globale.
Dal 2000 a oggi, ossia da quando Crutzen ha fornito la prima versione di questo concetto, altre definizioni hanno visto la luce. A seconda del criterio scelto è così possibile far risalire l’origine dell’Antropocene al 1610, al 1492, a 7000 anni fa,, fra i 12.000 e i 15.000 anni fa, o al momento in cui gli uomini si impossessarono del segreto del fuoco, all’incirca 1,8 milioni di anni fa.[4]
Ma vi sono ragioni che permettono di scegliere, come farò qui, una datazione più recente per l’inizio dell’Antropocene. In primo luogo, a partire dalla metà del XX secolo le attività umane sono diventate il fattore più importante alla base dei cosiddetti cicli biogeochimici fondamentali: ciclo del carbonio, dello zolfo e dell’azoto che insieme a quello dell’acqua e dell’ossigeno sostengono, con la loro interazione, il cosiddetto “sistema Terra”. In secondo luogo a partire dalla metà del secolo scorso, l’impatto umano sul pianeta e sulla biosfera è aumentato vertiginosamente in quantità (crescente) e in qualità (non sempre all’altezza). Questa progressiva crescita iniziata intorno al 1945 è stata così rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore termico presenti sulla terra è cresciuto da 40 milioni a circa 1 miliardo. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da 700 milioni a circa 4 miliardi. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato per ottenere fertilizzanti è passata da 4 a 90 milioni di tonnellate.
E la Plastica?
Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate ma oggi siamo arrivati a 330 milioni.
La Grande accelerazione per alcuni aspetti, soprattutto culturali e di metodo, sembra essere ancora tale anche se, in alcuni settori quali la raccolta ittica, la costruzione di maxi dighe e la rarefazione dello strato di ozono, si comincia a registrare una inversione di tendenza.[5]
Il periodo trascorso tra le prime produzioni di materiali plastici quali ad esempio il Polipropilene (la cui prima produzione industriale fu effettuata a Ferrara nel maggio del 1957) e oggi corrisponde grosso modo all’aspettativa di vita di un essere umano. L’intera esperienza di vita di quasi tutti gli individui che abitano il pianeta si è svolta in e con questa…accelerazione, senz’altro il periodo più anomalo e meno rappresentativo dei rapporti tra biologia e storia, tra natura e cultura della nostra specie in una storia lunga 200.000 anni. Tutto questo dovrebbe quindi renderci piuttosto scettici sul fatto che le tendenze attuali possano durare ancora a lungo: non ci sono abbastanza fiumi su cui costruire altre dighe, foreste da abbattere, pesci da pescare, falde acquifere da prosciugare, terre rare da saccheggiare e per entrare nel vivo del nostro tema non sono rimasti giacimenti di petrolio a sufficienza da sfruttare per produrre direttamente energia e le basi molecolari dei materiali sintetici che stanno letteralmente trasformando il pianeta in una grande discarica.
Eppure il futuro della plastica, come stiamo per vedere, potrebbe proprio essere la plastica del passato.
Riferimenti
[1] – Dalla postfazione di J. Bouveresse alle Note sul Ramo d’oro di Frazer di L. Wittgenstein, Adelphi, VII ed. (2000); [2] – G. Pasqualotto, Alfabeto filosofico, Marsilio, (2018); [3] – P. Crutzen and E. Stoermer, in IGBP Global Change Newsletter, vol. 41, pg-17-18, (2000); [4] – S. Lewis, M. Maslin, Nature, vol. 519, pg. 171-180, (2015); [5] – W. Steffen et al. Anthropocene Review, vol. 2, pg. 91-98 (2015)Immagini https://cartoonmovement.com/cartoon/plastic-age
https://www.etsy.com/it/listing/222463212/1888-flammarion-incisione-stampa
https://www.raiplayradio.it/audio/2019/08/WIKIRADIO—Lapos-Antropocene—50ce5820-416a-4b0e-a7a8-10852d2c81a7.html
www.arpa.veneto.it/spi/docs/21_polimeri_europa.pdf