Lo sguardo di un grande Maestro come Michelangelo Antonioni, molto attento alla contemporaneità, non poteva non rivolgersi anche al mondo del lavoro. Lo fece sin dal suo primo documentario “Gente del Po” iniziato nel 1943 e preannunciato con un articolo, e delle fotografie, pubblicato sul numero 68 (25 aprile 1939) della Rivista “Cinema”. Nel documentario, che, a causa delle vicende belliche riuscirà a completare nel 1947, Antonioni raccontava il viaggio di un barcone che trasportava cereali lungo il fiume, soffermandosi sulla vita dell’operaio e della sua famiglia che viveva sul barcone come se fosse la propria casa. Un’osservazione umana, la sua, partecipe della difficoltà di quella famiglia aggravata dalla figlia che si era ammalata. Un cortometraggio che secondo la critica costituiva per il Neorealismo un significativo esempio di osservazione della realtà.
Un vero racconto, cosi come lo è “N.U. Nettezza Urbana” (1948) anch’esso incentrato sul mondo del lavoro, quello degli spazzini romani colti nella loro quotidianità in una giornata qualsiasi, dall’alba al tramonto. Un lavoro preciso nella definizione di quell’ambiente espresso anche attraverso i volti di quei lavoratori. Un documentario in cui si rivela il prevalente interesse di Antonioni, che poi vedremo in tutte le sue opere, per i caratteri e le psicologie, ma anche il suo gusto figurativo.
Il lavoro degli interpreti di fotoromanzi in “L’amorosa menzogna” (1949) di cui analizza , anche con spunti di una certa ironia, la loro esistenza quotidiana: un soggetto che poi svilupperà per “Lo sceicco bianco” (1952) di Federico Fellini. Incentrato su una fabbrica con grande attenzione alle macchine ed ai tessuti lavorati è “Sette canne un vestito” (1950) girato in a Torviscosa, nel Friuli, dove negli anni Trenta , dopo la bonifica delle paludi, era sorta una fabbrica della SNIA per la produzione di Rayon , cioè la seta artificiale che veniva ricavata dalle piantagioni di canna presenti nel territorio.
Temi sul lavoro che poi svilupperà nei suoi lungometraggi migliori. Il mondo della moda è in “Le amiche” (1955), ispirato al racconto “Tra donne sole” di Cesare Pavese, dove l’attenzione di Antonioni è soprattutto sulle loro vicende amorose. Ma di un certo interesse risulta anche l’allargamento del suo discorso allo studio del loro rapporto con la vita professionale. Più centrato sul mondo del lavoro è “Il grido” (1957) dove il protagonista è Aldo, un operaio del Polesine, che entra in crisi quando Irma (Alida Valli), la donna con cui aveva vissuto vari anni e da cui aveva avuto la figlia Rosina, gli rivela di volerlo lasciare perché ama un altro uomo. Sarà per lui l’inizio di un vagabondaggio lungo la pianura padana, insieme a Rosina, che lo porterà a cercare una sua vera identità. E che, alla fine, ritornando al paese e vedendo che Irma si era ben accasata ed aveva un nuovo figlio, si uccide gettandosi, proprio, dalla torre dello zuccherificio in cui aveva lavorato. Un’opera in cui Antonioni ritorna ai paesaggi nebbiosi e all’umanità intorno al Po.
Michelangelo Antonioni affronta poi il tema dell’alienazione nel mondo dell’industria nel film “Il deserto rosso” (1964). Lo fa attraverso la figura di Giuliana, moglie di un ingegnere chimico in uno stabilimento di Ravenna, che incompresa dal marito verrà attratta da un amico del marito arrivato per ingaggiare degli operai da portare in Patagonia. Sarà così coinvolta in una deludente esperienza amorosa che influirà molto sul suo carattere di nevropatica e che alla fine, delusa anche dal figlio che finge una malattia che non ha, si ritroverà prigioniera di una realtà soffocante. Un film importante per Antonioni perché qui nella continua ricerca di un linguaggio innovativo portato avanti da sempre, usa per la prima volta il colore e lo fa in maniera espressiva. L’uso del colore, infatti, è in funzione della realtà cui il regista si trovava di fronte. Ne scaturisce un paesaggio padano trasfigurato che assume toni irreali molto suggestivi. Un film in cui Michelangelo Antonioni evidenzia l’aridità sentimentale, e spirituale, nel contesto di una realtà alienata e in disfacimento attribuendo la crisi della donna non alla condizione umana, ma soprattutto all’ambiente esterno che ne fa una vittima. Per cui a Giuliana non rimane che rifugiarsi nel sogno (di grande rilievo le scene girate all’isola di Budelli, in Sardegna), ma è un rifugio precario e illusorio.
Lavoratori e industrie anche in “Chung Kuo (Cina)” (1972) con il quale Michelangelo Antonioni coglie la realtà cinese, in quel pianeta allora sconosciuto al cinema occidentale. E lo fa con degli appunti di viaggio sui cinesi e sulle loro fatiche quotidiane, in otto settimane di riprese. Un’avventura , quella cinese, che per Antonioni fu piena di problemi a causa della campagna scatenata dalla moglie di Mao che lo accusava di crimini controrivoluzionari e anti-cinesi. Per cui questo suo film diventò un caso politico che si risolse dopo alcuni anni, con una storica riconciliazione tra i cinesi e il regista.
Temi osservati con quello sguardo poetico con cui ha sempre raccontato i suoi film. Uno sguardo poetico con cui guarda, in religioso silenzio, anche il Mosè del Genio Michelangelo Buonarroti nel documenttario “Lo sguardo di Michelangelo” con il quale nel 2004 conclude la sua straordinaria carriera di regista. Lasciando l’eredità di uno sguardo ineguagliabile nella Storia del Cinema.