Riportiamo l’interessante articolo di Andrea Gandini sulle scuole all’aperto, da lui pubblicato il 16 aprile scorso sul blog di Madrugada:
L’Italia (e non solo) ha avuto una straordinaria storia delle scuole pubbliche all’aperto avviatasi all’inizio del ‘900 per bambini deboli, fragili che rischiavano di contrarre la TBC. Dopo qualche esperienza si notò che questi studenti apprendevano più e meglio degli altri per cui furono estese anche ai bambini “normali”. L’estensione fu favorita dal fatto che nei Comuni l’assessore all’igiene era anche quello all’istruzione. Nei primi anni del ‘900 il movimento delle scuole all’aperto ebbe una grande diffusione in moltissimi Paesi (Germania, Inghilterra, Francia, Spagna, Stati Uniti,…). Un libro di Mirella D’Ascenzio, docente di Storia dell’educazione all’Università di Bologna, ed. ETS, 2018, pag.292, euro 28) racconta in modo dettagliato questa storia (e di molte scuole).
I riferimenti “teorici” sono legati alla pratica di alcuni valorosi maestri italiani come Giuseppina Pizzigoni di Milano o F. Fratus di Bergamo che si avvalsero anche degli studi di John Dewey, F. Fröbel, L.Latter, ma anche del convinto appoggio del ministro della P. Istruzione L. Credaro (1910). Negli anni ’10 e ’20 fu tutto un fiorire di esperienze e di pedagogisti che divulgarono un pensiero e pratiche perché queste scuole favorivano lo sviluppo fisico, l’esposizione al sole (elioterapia), la conoscenza della natura e degli animali, l’apprendimento tramite osservazione e laboratori manuali ed artistici, educa alle relazioni sociali e alla responsabilità (ogni studente aveva delle precise responsabilità organizzative).
C’era anche un co-presenza di maschi e femmine che collaboravano anche ai lavori domestici (cucina, pulizie). L’orario andava fino al pomeriggio, le lezioni duravano massimo 30-40 minuti, non c’era l’ansia del programma, in alcune scuole era stato introdotto il banco-zaino in modo da andare a passeggiare anche altrove (nel bosco, in campagna, in spiaggia).
Le scuole, promosse dai Comuni o dallo Stato, erano gratuite, c’erano lavori manuali (orto, giardinaggio, falegnameria), disegno, un apprendimento da sperimentazione e da osservazione della natura, un uso del metodo analitico e socratico (anche peripatetico), che metteva in discussione l’approccio della scuola tradizionale considerato da questo network di maestri all’avanguardia e coraggiosi anacronistico e arretrato.
Riporto qui brevemente le considerazioni di Sclavo, un allievo americano di J. Dewey in visita alla scuola di Roma nel 1924:
“…la scuola ordinaria quasi ovunque male si presta ad un insegnamento obiettivo, vera essendo l’osservazione di Dewey, che l’ambiente scolastico al presente è specialmente ordinato a trasmettere idee mediante le parole, anziché adatto ad un’istruzione, che abbia a nascere da un giudizioso impiego dei vari organi dei sensi. Non così è una Scuola all’aperto, dove la natura elargisce al maestro ed agli allievi i più svariati oggetti, che nel miglior modo servono a fare acquistare cognizioni improntate a realtà. Le piante, infatti, con la loro produzione (foglie, fiori, frutti, semi, radici, appendici molteplici) sono mirabilmente utilizzabili per abituare gli allievi a rilevare i particolari degli oggetti. Un apiario, un formicaio scoperto per caso nel giardino della scuola all’aperto, un allevamento di conigli o di polli, lo sviluppo di mosche e zanzare, possono costituire altrettante occasioni propizie a cattivare l’attenzione dei bambini e ad indurli ad eseguire con piacere il loro compito di esaminare”.
L’esperienza continuò anche durante il fascismo e ci fu una gara tra pedagogisti fascisti e socialisti ad intestarsi l’idea. Nel dopoguerra riprese con forza e si concluse nel 1977 a Imola (Bo), quando l’ultima scuola all’aperto chiuse, sotto la spinta del tempo pieno e del declino delle iscrizioni. Un ruolo non piccolo fu svolto dall’arricchimento (e dal crescente instupidimento) dei nuovi italiani.
Dal 2016 è nato un coordinamento delle scuole all’aperto in Italia sia di scuole elementari che superiori (www.scuoleallaperto.com) che vuole riprendere questa gloriosa tradizione che, paradossalmente con Covid-19, getta una luce nuova su come organizzare da settembre le scuole. Esse infatti hanno bisogno di una ri-progettazione (anche didattica) in cui stare all’aperto consentirebbe (almeno per alcune ore e alcune materie) un vantaggio rilevante nel distanziamento che sarà necessario forse continuare ad avere per qualche mese.
Sarebbe l’occasione di usare la catastrofe del virus per cambiare la scuola usando le buone pratiche del passato che hanno molto da dire anche nell’era “digitale”. Mai come oggi gli adolescenti e i giovani hanno bisogno di una relazione vera (non solo digitale col maestro/a), di prendersi delle responsabilità, di apprendere non solo dall’istruzione ma dalla sperimentazione, di fare lavori manuali e artistici, di non avere il libro di testo (che nelle scuole all’aperto non c’era) e il programma come unico riferimento ossessivo. Covid-19 lancia una sfida anche alle scuole oggi in forte crisi e quella delle scuole all’aperto è una via vera che raccorda gli studenti con la realtà, la natura, la manualità, l’arte e una nuova responsabilità verso il creato, gli altri, se stessi.
A settembre le necessità di distanziamento nelle aule potrebbero prevedere di avere solo metà classe in aula e l’altra metà all’aperto. Il maestro-docente potrebbe avvalersi di un assistente neo laureato o laureando all’ultimo anno (in fase di tesi) assunto con un contratto a termine part-time. Sarebbe un immissione straordinaria (una tantum) di 500mila giovani che farebbero esperienza sul campo (una sorta di volontariato pagato civile) per una spesa di 2,7 miliardi che darebbe un’enorme “svegliata” e rinnovamento alla scuola. Non male come ripartenza diversa. E intanto la Danimarca ci prova.