Si è svolto il 6 ottobre scorso, nel contesto del Festival di Internazionale, l’incontro presso il Dipartimento di Giurisprudenza sul tema delle Aree interne, delle loro criticità e delle soluzioni possibili.
Antonia Carparelli, in rappresentanza della Commissione Europea in Italia, nel suo intervento ha evidenziato come più in generale l’attenzione alle diseguaglianze sia riconducibile al Trattato di Roma, che istituì già nel 1957 il Fondo sociale europeo, e come il recente lungo periodo di crisi abbia contribuito a cambiare l’approccio europeo ai fondi di coesione; il quadro sui territori e sulle loro criticità, ha infatti osservato Fabrizio Barca, era già chiarissimo all’inizio dello scorso decennio, ma è stata perseguita l’idea che le popolazioni e le attività economiche debbano concentrarsi nelle grandi città e, con il Geography Report della Banca Mondiale, che lo Stato non fosse più in grado di elaborare strategie e dare indirizzi, ma che questo fosse ormai un compito riservato alle grandi corporation. Si scelse l’abbandono dei territori periferici (in Italia, ma anche in altri paesi, fra cui la Romania e la Bulgaria), nei confronti dei quali la politica appariva perciò rinunciataria, e il motivo conduttore “non si può fare niente” induceva molti abitanti ad “utilizzare i piedi”, cioè ad andarsene per confluire nelle grandi città: era la strategia exit che, osserviamo, è stata descritta mirabilmente da Albert O. Hirschman in contrapposizione alla voce, che ha invece indotto molti altri abitanti dei territori ad entrare in conflitto col potere politico, finendo con l’aumentare il consenso agli opposti estremismi. Molti sindaci, ha osservato Barca, sono però riusciti ad intercettare quel conflitto, ed è da lì che sono nate le strategie per le Aree interne, che ora sono state finalmente riscoperte ma che sono figlie di iniziative che risalgono almeno a dieci anni fa, allo stesso Rapporto Barca e all’opera di Anthony Atkinson e del Forum Disuguaglianze Diversità. L’impresa capitalistica, infatti, può nascere anche in un contesto che non è urbano, e a volte basta cambiare la politica ordinaria, l’organizzazione del territorio, cioè il modo in cui si utilizzano le risorse, senza dover per forza aumentare lo stock dei mezzi finanziari messi a disposizione. In Irpinia, per esempio, che è una delle 72 aree interne interessate, si è tentata una strategia di “destabilizzazione degli equilibri” perché le potenzialità lì sono straordinarie: il problema, ha osservato Barca, è che per cambiare una cultura ci vuole tempo, e a volte lo “stallo” non è un fatto negativo, ma la cosa che più conta è collegare le aree interne, e in primo luogo – ove possibile – privilegiando il mezzo ferroviario. Permangono infatti differenzi culturali enormi, ha osservato Franco Arminio, anche fra territori fra loro vicini. Nella nostra provincia, vien da pensare, ma anche all’interno dei soli territori del Basso ferrarese, le differenze – persino dialettali! – sono rilevanti e dividono piccoli centri che in effetti distano pochi chilometri l’uno dall’altro!
L’Anci, ha evidenziato ancora Barca, con “La voce dei Sindaci delle aree interne” ha fatto sì che alcuni primi cittadini abbiano effettivamente individuato i progetti strategici, che poi non sono riusciti ad attuare per i limiti della loro tecnostrutture: anche qui, semplici interventi di rafforzamento degli organici e quant’altro serva al servizio della strategia possono dare risultati rilevanti, più di qualsiasi erogazione finanziaria aggiuntiva. Peraltro, ha osservato la Carparelli, la prossima programmazione 2021-2027 vedrà il lieve ridimensionamento dell’attenzione sulle politiche agricole a fronte di nuove priorità che sono state individuate, e che sono ora costituite in particolare dai problemi dell’immigrazione, dalla sfida climatica e dalla digitalizzazione che è forte in ritardo. Il bilancio europeo è peraltro troppo modesto, copre appena l’1% delle risorse, rispetto ad esempio a quello degli Stati Uniti o di altri paesi, e questo comporta la necessità che siano le politiche nazionali ad essere efficaci, mentre l’Unione Europea continua a svolgere un ruolo di indirizzo che si rivela fondamentale, in particolare per inquadrare le risorse disponibili al fine di favorire lo sviluppo sostenibile (seguendo in questo Agenda 2030) e per affrontare le sfide che ci attendono, in particolare in tema ambiente e della digitalizzazione, due campi che si rivelano fondamentali per lo sviluppo delle Aree interne, perché la connessione aiuta fra l’altro anche il rientro delle popolazioni nei territori. Lo spopolamento, infatti, è stato rilevante, e non solo nel nostro Paese: lo è stato in particolare all’Est, dove un quadro sociale critico ha già portato ad un cambio di politiche; finora le Aree interne sono state interessate infatti principalmente da strumenti emergenziali compensativi ma si stanno già registrando i primi risultati positivi, in termini di fenomeni di ritorno, a fronte di nuove strategie che si cominciano a porre in essere: la geografia dello scontento è, per quanto riguarda l’Unione Europea, la geografia delle aree “che non contano” e della loro rivolta.
Il pericolo, ha osservato fra l’altro Arminio, è allora che si scriva una sceneggiatura che dura all’infinito mentre il film vero non comincia mai; perché è nelle aree interne, e nelle piccole città, che si gioca il futuro del nostro Paese: molte risorse non vengono sfruttate (si pensi solo all’energia eolica), servono “residenti forti”, persone attive e gli investimenti infrastrutturali giusti. Perché, ad esempio, non prevedere un “TAV” anche per il profondo Sud? Com’è possibile, osserviamo noi, che collegare Ferrara al Basso Ferrarese richieda oggi molto più tempo che collegare Bologna a Milano? La risposta è forse in quel processo di attrazione da parte dei grandi centri urbani prima evidenziato: perché la politica, osserviamo, è in primo luogo una questione di scelte e solo secondariamente di distribuzione di risorse.