Rapa Nui è il nome indigeno dell’Isola di Pasqua, posta nell’Oceano Pacifico, molto distante da qualsiasi continente: il meno lontano è il Sud America dal quale dista ben 3600 km. Politicamente fa parte del Cile, che è appunto lo Stato più vicino. E’ un’isola di origine vulcanica, celebre per i famosi “mohai”, le teste scolpite nella pietra che ne caratterizzano lunghi tratti di costa (nota bene: i mohai, contrariamente a quanto appare in varie vignette, non guardano verso il mare ma verso l’interno).
Il suo clima è subtropicale, con differenze minime tra estate e inverno, ma è particolarmente povera di specie vegetali, dal momento che le correnti oceaniche che la interessano provengono per lo più dalla lontanissima Oceania e perciò non riescono a portarne i semi. Le specie vegetali pare siano state importate un po’ dagli uccelli ma per la maggior parte dai primi colonizzatori, che vi sono arrivati intorno al IX secolo d.C. Non provenivano dal Sudamerica bensì dalla lontana Polinesia; lo hanno dimostrato analisi genetiche sulle ossa di antichi abitanti. L’importazione “antropica” dei semi è richiamata anche da una leggenda locale, quella del “Grande Genitore” (Hoto Matu’a).
Le ricerche sui pollini e l’esame degli antichi frammenti di legno dimostrano però che la scarsa vegetazione attuale è quel che resta di una serie di sconvolgimenti causati più o meno direttamente dall’uomo.
Pare infatti che Rapa Nui, fino al X secolo, fosse coperta da una fitta foresta di alberi, soprattutto palme. Poi è stata fatta oggetto di un progressivo disboscamento, culminato nei secoli XV e XVI: i suoi abitanti “umani” hanno abbattuto milioni palme, per motivi assai discutibili: ne usavano i grandi tronchi quasi esclusivamente per trasportare ed erigere i mohai. A causa di questa deforestazione, il suolo fertile che si era formato nei millenni precedenti è stato eroso, con conseguente desertificazione di vasti settori dell’isola, e questo ha anche determinato una drastica riduzione della popolazione e il suo imbarbarimento.
Gli uomini di Rapa Nui, che nei secoli XII e XIII avevano raggiunto un buon livello di convivenza ed equilibrio con le risorse naturali, successivamente, a causa dell’inasprimento dei rapporti reciproci dovuto alla diminuzione delle risorse stesse, si erano notevolmente ridotti di numero. All’arrivo dei colonizzatori europei (il giorno di Pasqua del 1722) non solo erano pochi, ma erano addirittura retrocessi fino al cannibalismo. L’isola era ormai una brulla prateria rocciosa; la rigogliosa vegetazione che i primi rapanui avevano contribuito a far crescere, era stata distrutta dai loro discendenti.
Oggi sembra impossibile che questo sia potuto accadere, sembra impossibile che nessuno di quegli abitanti si fosse accorto che continuando a tagliare gli alberi avrebbero distrutto l’ambiente che consentiva la loro sopravvivenza, avrebbero “tagliato il ramo su cui erano seduti”. Eppure è accaduto. Come si può spiegare?
I motivi sono molti, ma si possono inquadrare in due grandi filoni.
Il primo è costituito dal fattore tempo. Un notevole cambiamento delle condizioni di vita viene chiaramente avvertito quando si sviluppa nell’arco di una generazione. Per lo più quelli che appaiono più evidenti sono i peggioramenti e la memoria del singolo individuo è sufficiente a registrarli. A Rapa Nui la diminuzione della vegetazione e la conseguente erosione del suolo è invece avvenuta lentamente, nell’arco di molte generazioni, e si sa che quando un nonno racconta che ai suoi tempi le cose stavano diversamente, in genere non viene creduto. La classica frase di chiusura della discussione è “tutti i vecchi dicono così … non bisogna badarlo !”
Il secondo filone di motivi non lo si può provare scientificamente, ma è facilmente immaginabile.
Supponiamo che un indigeno, chiamiamolo Rapa-nel, si fosse messo a dichiarare pubblicamente che a Rapa Nui bisognava smetterla di tagliare alberi.
Si sarebbe sicuramente scontrato con le seguenti obiezioni.
“Non si può fermare il taglio degli alberi, resterebbero disoccupati centinaia di costruttori di asce, centinaia di boscaioli, cavatori, trasportatori”; considerazione seguita da nette prese di posizione da parte delle rispettive associazioni di categoria, sindacati, minacce di scioperi ecc.
I complottisti: “Rapa-nel è imparentato con la tribù dei Nui-gat e vuoi impedire a noi della tribù dei Nui-can di estrarre ed erigere il nostro Mohai … è risaputo che quest’anno tocca a noi”.
Gli scaricabarile: “è vero che nel bosco della nostra tribù è stato tagliato un quarto degli alberi, ma gli ultimi 30 li ha fatti tagliare il precedente capo-tribù, quel maledetto” (e tutti sputano in terra … naturalmente il precedente capo-tribù in quel momento è già morto).
Gli pseudogeometri: “nel bosco della nostra tribù è stato tagliato un quarto degli alberi, ma in quello dei Nui-gat ne è stato tagliato più di un terzo e in quello dei Nui-ock almeno la metà … è a loro che Rapa-nel dovrebbe fare la predica, non a noi”.
Gli psudoscienziati: “gli alberi debbono essere tagliati altrimenti i venti benefici dell’oceano non arrivano al centro dell’isola, ove l’aria è diventata malsana”.
Gli psudotecnici: “oggi sono stati abbattuti 10 alberi, ma avevano cominciato ad ammalarsi, e domani ne pianteremo 20”.
Gli psudopolitici: “il problema esiste, ma abbiamo già messo a punto un protocollo che sottoporremo a tutte le tribù affinché fra 15 anni il taglio degli alberi venga ridotto”.
Eccetera, eccetera.
Probabilmente tutti erano consapevoli che le cose non potevano andare avanti in quel modo, ma la consapevolezza non basta … volendo, si trova sempre qualche motivo contingente per eludere il problema, per rimandare.
E’ il comportamento che io chiamo “sindrome di Rapa Nui”.
Oggi sta accadendo esattamente lo stesso davanti alla crisi del clima.
Solo che è l’intero Pianeta il luogo in cui le cose non possono più andare avanti così, e il nostro Pianeta è assai più isolato e unico di Rapa Nui.
(l’immagine è tratta da: www.cittadarte.emilia-romagna.it)