Lost in Translation è un film del 2003, scritto, diretto e prodotto da Sofia Coppola con protagonisti Bill Murray e Scarlett Johansson. Il film ruota intorno alla particolare intesa che nasce in un grande hotel di Tokio tra un maturo attore in declino, Bob, e una giovane neolaureata in filosofia, Charlotte.
I due personaggi rappresentano perfettamente in metafora l’incontro e direi le fasi di transizione da un mondo vecchio a uno nuovo dove qui per mondo si intende un po’ di tutto: il corpo, il linguaggio e ancora il modo di pensare e persino di sentire e provare emozione.
Mi sembra che questo sia il film che più da vicino possa rappresentare il momento che stiamo vivendo quello delle cosiddette… transizioni (ecologiche, digitali, ambientali, sociali, umane etc…)
I due “mondi” si ritrovano ospiti dello stesso hotel a Tokyo e cominciano una spontanea conversazione in cui – con quella tranquillità che essere estranei l’uno all’altro favorisce – si scambiano pensieri e preoccupazioni, consigliandosi l’un l’altra quale sia la strada migliore da intraprendere per essere felici. Come sistemare ciò che è stato fatto, porre dunque rimedio al “mondo” vecchio e riorganizzare le cose per preparare il nuovo “mondo”. Ma in realtà, come accade per qualunque tipo di confronto “epocale”, nessuno dei due detiene tale segreto, limitandosi ad attingere reciprocamente lo slancio necessario per sanare quello che è accaduto e affrontare una vita che forse non sarà esattamente come viene immaginata.
Sofia Coppola segue in punta di piedi i protagonisti di Lost in Translation nel loro relazionarsi incarnando un movimento itinerante e precario, lasciando fino all’ultimo il dubbio che fra Bob e Charlotte ci sia qualche affinità se non amore.
Ecco questo andamento al limite del vagabondaggio e della precarietà mi ha fatto ricordare il motto di una vecchia e gloriosa associazione di lavoratori americani: la Industrial Workers of the World (IWW).
Il motto era di fatto il loro programma e per certi versi la migliore strategia rivoluzionaria da adottare quando due mondi si incontrano senza scontrarsi e cercano così di legittimarsi l’un con l’altro: “formare la nuova società dall’involucro della vecchia”.
Il wobbly (il precario, l’itinerante) come amava farsi chiamare l’iscritto al sindacato americano, riteneva questa la strategia migliore da adottare per garantire tanto quelli che vengono dal “mondo” vecchio tanto quelli che avanzano nel “mondo” nuovo. Senza demonizzare o drammatizzare sulla quota di eredità negativa che il mondo vecchio ha lasciato ma sfruttando la parte, seppur piccola o ridottissima, di eredità positiva. E nello stesso tempo non bisogna abbandonarsi alla esaltazione e idealizzazione di tutto quello che il nuovo mondo potrà riserverà grazie a imponenti piani di recupero e resilienza costruiti e regolati al meglio.
Con una scena finale degna degli annali della storia del cinema, Lost in Translation lascia lo spettatore con quella sottile inquietudine che solo le grandi opere sanno trasmettere:
i due protagonisti passano un’ultima serata insieme al bar, dove dai loro sguardi e dalle loro parole è ancora evidente la magica alchimia che si è creata tra loro. Bob (il vecchio mondo!) confessa di non voler partire e Charlotte (il nuovo!) gli suggerisce di restare con lei.
La mattina dopo Bob sta per lasciare l’albergo e tra i due avviene un saluto imbarazzato e triste. Ma poi dal taxi verso l’aeroporto Bob rivede Charlotte che cammina per strada. Si ferma, la raggiunge e i due si abbracciano teneramente. Bob le sussurra qualcosa all’orecchio e infine la bacia. Charlotte piange. I due si salutano di nuovo, questa volta felici, e Bob va verso l’aeroporto.
Penso a questa scena e ai nostri wobblies contemporanei a quei lavoratori che hanno già perso il posto di lavoro ( gli addetti della Gnk di Firenze, quelli della Whirpool di Napoli) e gli altri che rischiamo di …perdere (lost) nella transizione (in Transition) e resto sempre più convinto che il motto dell’IWW sia la migliore rivoluzione che si possa immaginare e concretamente fare.
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